Nemmeno lo spiffero del presidente Draghi che ha difeso con forza il principio del reddito di cittadinanza (ma i migliori, si sa, sono migliori solo quando dicono concetti che tornano utili) ha fermato la battaglia a testa bassa di Matteo Renzi e compagnia cantante contro la misura.
C’è innanzitutto una riflessione da fare: il reddito di cittadinanza ci permette, giorno dopo giorno, di riconoscere con maggiore facilità da che parte stiano i diversi esponenti politici, se sono appiattiti sul reddito di cittadinanza alle imprese (li chiamano sussidi perché fa più figo) o ai poveri. Meglio così. Chissà che qualcuno prima o poi si svegli e la smetta di ritenersi di centrosinistra.
Italia viva in testa, con la Lega poco dietro (sempre per quella vecchia storia degli amorosi sensi tra i due Mattei) insistono nella visione moraleggiante di una gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere sussidi invece di “soffrire, rischiare, provare”.
Ma c’è un punto sostanziale che va ribadito con forza: a Renzi e compagnia cantante (Confindustria in testa) disturba che il reddito di cittadinanza (che per il 30% finisce a chi ha meno di 20 anni) permetta ai giovani di dire no a contratti di miseria che sono ben al di sotto di qualsiasi soglia di sopravvivenza. Una certa imprenditoria italiana impazzisce all’idea di non poter pescare schiavi e non è un caso che tra le proposte di modifica ci sia quella di avere l’obbligo di accettare lavori anche al di sotto dell’assegno del reddito di cittadinanza con un’eventuale integrazione a carico dello Stato. Per farla breve si tratterebbe di uno schiavismo di cittadinanza non solo tollerato ma addirittura in concorso con lo Stato. Un capolavoro, insomma.
L’assegno medio percepito dai beneficiari del Rdc è di 586 euro: credere che quella cifra possa essere minimamente gratificante dal punto di vista professionale, umano e di realizzazione significa non avere nessun contatto con la realtà. Nella sua replica a Italia viva pubblicata da La Stampa la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra lo dice chiaramente: «Si può essere poveri anche senza essere pigri». Sempre Guerra nel suo intervento smonta anche una retorica truffaldina sul reinserimento nel mondo del lavoro dei percettori di reddito: «È molto difficile collocare persone che, nel 67% dei casi (Inps), non hanno avuto nessun rapporto col mercato del lavoro nei due anni precedenti l’introduzione del Rdc e che hanno un tasso di scolarità molto basso. Ma lo è ancora di più in un periodo in cui l’occupazione è calata, dal febbraio 2020 al febbraio 2019, di 846 mila unità. In questo contesto, per legge, dall’aprile del 2020 si è deciso di sospendere gli obblighi relativi all’accettazione di offerte di lavoro per i percettori di Rdc».
«I numeri dei nostri istituti pubblici – dice Guerra -, davvero inoppugnabili, ci dicono altro anche sul rapporto Rdc-lavoro: circa metà delle persone che ricevono il Rdc non sono attivabili al lavoro. Anche perché spesso già lavorano: nel 57% dei nuclei beneficiari sono presenti persone occupate»: in sostanza in Italia si è poveri anche lavorando. E questo sarebbe il punto vero di cui bisognerebbe avere il coraggio di parlare. Tutto questo in un Paese dove gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (solo per citare due delle categorie che regolarmente sono in fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiano di agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto.
Il reddito di cittadinanza può essere migliorato? Eccome. Ma prima di qualsiasi discorso conviene comprendere bene chi è strumentalmente critico perché disinteressato alla povertà. È una questione di onestà intellettuale e onestà politica. Ed è una questione anche di ecologia del dibattito.
Buon mercoledì.
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