«La situazione è davvero terribile, dovunque ci sono uomini armati con lunghe barbe e lunghi capelli sporchi, uomini che non hanno un briciolo di umanità. Siamo tutti preoccupati per la sicurezza e per il futuro: Kabul sembra un corpo morto. Ci è toccato avere a che fare con tutto questo alcuni anni fa, prima del 2001. A quel tempo abitavo in una delle provincie e ricordo il comportamento dei talebani nei confronti delle donne, davvero inaccettabile. La situazione ora non è chiara, non hanno ancora annunciato le regole e i ruoli per i residenti di Kabul. Ma dobbiamo andare avanti a lottare per il popolo afghano. Dobbiamo essere forti».
Sono le parole che una donna afgana ha scritto alle compagne del Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afgane), riportate in una nota della onlus che definisce «ridicole» le giustificazioni dei governi occidentali per il loro ritiro dall’Afghanistan «dopo 20 anni di occupazione da parte di Usa e forze Nato», «dopo aver speso miliardi di euro (solo l’Italia 8,7 miliardi) e di dollari (1 trilione gli Usa)» «dopo 241mila vittime civili e militari» e dopo aver provocato «5 milioni di sfollati».
Il Paese è di nuovo nelle mani dei talebani dopo «una guerra giustificata con la lotta al terrorismo, i diritti delle donne, l’“esportazione della democrazia». Una guerra che, prosegue Cisda «non ha sconfitto il terrorismo, né in Afghanistan né nel resto del mondo, e non ha portato né diritti delle donne né democrazia». E i cui fini erano diversi da quelli dichiarati. L’Afghanistan è un Paese di importanza geostrategica fondamentale nel quadro asiatico e mediorientale e non è un caso che prima l’impero britannico, poi l’Unione Sovietica e poi gli USA abbiano tentato di colonizzarlo. Ora il grosso timore è che «le dichiarazioni di intenti per tutelare i diritti delle donne, per la salvezza degli afghani che temono per le loro vite per aver collaborato con l’Occidente rimarranno lettera morta».
I talebani promettono “che le donne verranno rispettate ma dovranno sottostare alla legge della Sharia” che nella loro interpretazione significa schiavitù e sottomissione. «Chiuso il circo mediatico che oggi tiene accesi i riflettori sull’Afghanistan calerà di nuovo il silenzio, come dopo la sconfitta dell’Urss o durante il passato regime dei talebani (1996-2001). E il silenzio coprirà la vergogna di 20 anni di missioni militari approvate da tutti i governi di questo paese, di qualsiasi colore, che ora lasciano il popolo afghano, in particolare le donne, nelle mani di brutali fondamentalisti. Donne che, anche in questi 20 anni di cosiddetta “liberazione”, hanno continuato a soffrire per violenze, stupri, matrimoni forzati e precoci, assenza di istruzione (l’87% delle donne afghane è analfabeta) e di sanità. Le nostre compagne di Rawa, gli attivisti e le attiviste del Partito della solidarietà (Hambastagi), Malalai Joya hanno dichiarato che non lasceranno il Paese, che continueranno a lottare contro il fondamentalismo, per un Afghanistan libero, e a costruire progetti dal basso con le fasce più vulnerabili della popolazione». In particolare le donne. «Noi del Cisda – conclude la nota firmata “Le donne del Cisda” – abbiamo sostenuto per 20 anni queste donne e uomini coraggiosi e determinati, non smetteremo di sostenerli e chiediamo che da oggi i riflettori si accendano sulle poche voci laiche e democratiche che giungono dall’Afghanistan».
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