«Nella persecuzione degli ebrei ci fu una spietata collaborazione con il Terzo Reich che durò per i venti mesi dell’occupazione» sottolinea lo storico Carlo Greppi e aggiunge: «Ma già dalle leggi razziali l’Italia li discriminava con convinzione, senza alcuna pressione nazista»

La destinazione principale delle deportazioni dall’Italia, come dal resto d’Europa, fu il campo di Auschwitz. Gli ebrei che vi giunsero dall’Italia furono più di 6mila. Altri trasporti partiti dall’Italia furono diretti a Bergen Belsen. Gli oltre 400 deportati che furono rinchiusi in questo campo, riuscirono a salvarsi in quanto furono oggetto di scambio con tedeschi nelle mani delle potenze alleate. Alcuni trasporti, quelli partiti dall’Italia dopo il novembre 1944, furono diretti verso i campi di Ravensbrueck e Buchenwald, poiché ad Auschwitz era cominciata la fase di liquidazione del campo. Altri ebrei caddero nei rastrellamenti anti partigiani e, non riconosciuti come ebrei, furono deportati in campi di concentramento destinati agli oppositori politici. Le vittime della Shoah in Italia furono oltre 7mila; i superstiti rientrati in Italia dalla deportazione furono il 12,5% del totale».

E poi ci sono gli internati ad Auschwitz provenienti dai nostri possedimenti dell’epoca nel Dodecaneso, 1.815. Di questi, sappiamo solo che sopravviveranno 178 persone della comunità ebraica di Rodi.

Questa tragica conta, che mette una volta per tutte nero su bianco le responsabilità italiane nel compimento dell’Olocausto, è un estratto del progetto I nomi della Shoah, progetto della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea coordinato dalla storica Liliana Picciotto.

Sono cifre che infrangono la narrazione purtroppo ancora dominante che dipinge l’Italia come un attore assolutamente di secondo piano nello sterminio di ebrei, prigionieri politici, slavi, rom e altre minoranze che si è consumato durante la Seconda guerra mondiale per mano del Terzo Reich. Per non parlare della vulgata secondo cui il popolo italiano, in fondo, avrebbe fatto il possibile per impedirlo.

Cifre che lo storico Carlo Greppi riprende nel suo prezioso ebook La nostra Shoah (Feltrinelli, 2015). Nel saggio, tra le altre cose, ci ricorda che seppure le vittime dell’Olocausto italiano furono effettivamente poche se prendiamo a paragone i Paesi dell’Europa orientale, su questa vicenda si è scelto di non fare i conti. Come testimoniano anche la letteratura e il cinema. Greppi, ora in libreria con L’antifascismo non serve più a niente (Laterza, 2020) ne ha parlato con Left. Ma partiamo dall’inizio.

Possiamo dire che l’Italia abbia partecipato senza riserve alla Shoah?
Innanzitutto l’Italia perseguita con convinzione, senza alcun tipo di pressione da parte della Germania nazista, gli ebrei italiani e stranieri che risiedono sulla penisola nel 1938, quando vengono emanate le leggi razziali fasciste. Comincia allora quella che gli storici hanno chiamato “la persecuzione dei diritti”. Si tratta di un elemento fondamentale per isolarli, oltreché naturalmente per individuarli. Successivamente, con l’occupazione nazista del 1943, inizia “la persecuzione delle vite”. Riguardo alle migliaia di ebrei arrestati e deportati ad Auschwitz, e mai più ritornati, gli storici sono giunti a una conta precisa: su tre arresti, uno è compiuto da italiani, uno da tedeschi e uno da italiani e tedeschi congiuntamente. L’ha dimostrato, tra gli altri, Simon Levis Sullam nel suo libro I carnefici italiani (uscito in Italia per Feltrinelli nel 2015, ndr), sfatando il mito di una Repubblica di Salò del tutto succube della Germania nazista. Nella persecuzione degli ebrei ci fu una spietata collaborazione tra fascisti e Terzo Reich che durò per tutti i venti mesi dell’occupazione.

Come e perché, a fronte di questa realtà, il mito degli “italiani brava gente” è riuscito a sopravvivere fino ad oggi?
Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi (Laterza, 2013, ndr), con una scrupolosa analisi di documenti coevi e successivi, racconta che questo mito si iniziò a scriverlo a guerra ancora in corso, e peraltro fu rinsaldato anche sul versante antifascista, come strumento per potersi accreditare come alleati credibili agli occhi degli Stati che avrebbero vinto la guerra, in una classica eterogenesi dei fini. Questo mito si è poi trascinato fino a noi anche attraverso cinema e letteratura, per non parlare della pubblicistica di bassa lega, rappresentata in Italia da molti giornalisti revisionisti che negli anni si sono succeduti. Dunque è un mito abbastanza inscalfibile per una parte dell’opinione pubblica. Italiani brava gente? di Angelo Del Boca (Neri Pozza, 2005, ndr) e più di recente Mussolini ha fatto anche cose buone di Francesco Filippi (Bollati Boringhieri, 2019, ndr) sono due testi chiave che smontano questa narrazione. Ma, nonostante siano stati enormi successi editoriali, hanno scalfito solo in superficie questa grande mitologia dell’italiano che in fondo non si è macchiato di crimini gravi. Perché? Da un lato sicuramente il non aver fatto i conti anche giuridicamente coi criminali di guerra italiani ha avuto un ruolo decisivo. Dall’altro, il fatto che milioni di italiani siano stati più o meno convintamente fascisti, che abbiano poi in qualche misura difeso, ridimensionato i crimini del regime nel corso del Ventennio, perché non dobbiamo dimenticare quelli compiuti durante le “imprese” coloniali e i massacri dei civili in tutti i luoghi occupati, ha contribuito a rinvigorire questo mito. Il nostro compito è ribattere colpo su colpo, ricordare che il fascismo fu un regime spietato, di fatto sempre in guerra, che non si è mai fatto alcun problema a calpestare chi veniva ritenuto inferiore, dai popoli colonizzati agli ebrei.

Un altro luogo comune di questa narrazione autoassolutoria è quello secondo cui il regime sarebbe stato tutto sommato bonario fino alle leggi razziali che insieme all’entrata in guerra due anni dopo furono semplici “errori di percorso”.
L’ultimo libro di Bruno Vespa, per fare un esempio, si mette in scia a una lunga tradizione revisionista, secondo cui il fascismo fu un regime fondamentalmente buono fino al 1938, ossia fino alle leggi razziali, che solitamente si sostiene, peraltro, sarebbero state emanate in seguito a forti pressioni dei tedeschi, che è falso. Così come si afferma che sono i nazisti a trascinare un’Italia recalcitrante nella Seconda guerra mondiale, teoria altrettanto falsa. In realtà, lo sappiamo, il fascismo prende il potere con la violenza, perseguita gli oppositori sin da subito, non lesinando omicidi politici, commina migliaia di anni di carcere di confino, induce decine di migliaia di persone all’esilio o alla clandestinità, ed essendo di fatto sempre in guerra persegue una politica di potenza che gli storici sono arrivati a definire anche “genocidaria”, ad esempio in riferimento alla Cirenaica, alla cosiddetta “riconquista” della Libia. Tutto questo prima delle leggi razziali e prima dell’entrata in guerra.

Possiamo dire che i campi di concentramento furono un fatto anche italiano?
Lo storico Eric Gobetti, che è ora in libreria con E allora le foibe?, un saggio pubblicato nella collana “Fact checking” che curo per Laterza, lavora da anni su un caso specifico che fa luce in generale su questo aspetto, ossia il campo di concentramento italiano per slavi di Arbe nel Carnaro, dove morirono circa 1.500 persone, in gran parte di stenti. Riprendendo quanto dicevo prima, ricordiamo che in Cirenaica il regime fascista internò metà della popolazione, per sottrarre – in teoria – terreno ai ribelli, in realtà mettendo in atto una politica genocidaria. Ma in generale, in tutte le occupazioni della Seconda guerra mondiale, il regime fascista internò sistematicamente oppositori e civili. Chiaramente non si trattava di campi di sterminio per come li intendiamo dopo aver visto quelli eretti nel 1941-1945 dal Terzo Reich, ma di una politica assolutamente convergente, di una idea di “nuovo ordine” perseguita parallelamente da nazismo e fascismo, che prevede l’isolamento e l’annientamento di chi a questo progetto si oppone o in questo progetto non rientra. Non dimentichiamo infine che, per favorire la persecuzione degli ebrei e dei deportati politici, in Italia aprirono vari campi di transito. In uno in particolare, la Risiera di San sabba, venivano attuate anche pratiche di sterminio.

C’è un ampio dibattito sul consenso della popolazione civile…
Io lo metterei tra virgolette perché come molti storici hanno sottolineato non si può parlare di consenso in un regime totalitario, però, sicuramente milioni di italiani sostennero con convinzione o con diversi gradi di opportunismo il regime, e la seconda metà degli anni Trenta è considerata il picco di questo consenso. È altrettanto vero che centinaia di migliaia di persone si opposero decisamente al fascismo, durante tutto il Ventennio, in fasi altalenanti. Se poi consideriamo la parabola del partigianato italiano, ci troviamo di fronte a milioni di civili che lo sostengono. In maniera oscillante, certo, e non si può sicuramente parlare di una “lotta di popolo”, anche tenendo conto delle stime più aggiornate dei combattenti grazie al lavoro confluito nel sito Partigiani d’Italia. Si tratta di una minoranza, per quanto nutritissima, di persone che si opposero prima al regime e poi al nazifascismo, che mostra un’altra Italia che covava sotto le ceneri. Poi ci sarebbe da parlare dell’ampia fascia che oscillò tra i due poli oppure scelse di stare in disparte, la cosiddetta “zona grigia”, della quale si è molto dibattuto in termini assolutori. Io credo che debba essere fatto in termini storici, cercando di capire come e perché la maggioranza degli italiani, in fondo, non si schierò mai o quasi.

Come sarà possibile continuare a raccontare questo capitolo terrificante della nostra Storia, quando non ci saranno più testimoni diretti?
I testimoni sono stati preziosissimi. C’è stata un’epoca, “l’era del testimone”, che ha permesso di costruire una narrazione pubblica commovente e molto profonda di quegli anni. Ora, i testimoni dal punto di vista dello storico sono fonti, ad alta temperatura emotiva certo, ma fonti. E di fonti – fermo restando che molte di quelle testimonianze dirette son rimaste registrate su supporti vari, cartacei e audiovisivi – ne abbiamo anche altre, penso ad esempio alle fotografie, alcune atroci, terrificanti, come quelle scattate dalle Einsatzgruppen sul fronte orientale mentre lo sterminio prendeva forma, e abbiamo anche le storie individuali, le storie familiari, le storie locali. C’è moltissimo materiale ed è nostra responsabilità lavorarlo, impastarlo e restituirlo con varie forme di narrazione al pubblico. L’importante è non “sedersi” mai su quanto fatto, innovare continuamente le metodologie e le forme di narrazione. C’è il rischio che l’attuale narrazione ad un certo punto stufi, in parte l’ha già fatto, ed è comprensibile, ma è nostro compito circumnavigare questa fatica.

La risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, che equipara comunismo e nazismo, e dunque i crimini dei regimi di destra e di “sinistra”, compie una equiparazione inaccettabile, su cui la destra però insiste molto. Che ne pensa?
Il pericolo fondamentalmente è quello di non comprendere come i fascismi perseguirono dall’inizio alla fine un’idea di mondo ben precisa, in cui alcuni popoli superiori hanno il diritto di schiacciare gli altri. È giusto naturalmente ricordare che in Unione Sovietica andò in scena uno dei regimi più biechi della Storia dell’umanità, lo stalinismo, ma è altresì giusto indicare che nacque da tutt’altre premesse. Fu una terrificante distorsione di quel sogno che nel 1917 aveva contagiato milioni di europei e non solo. Equipararlo al nazismo è profondamente scorretto. Si tratta naturalmente di due totalitarismi, ma nel caso dei fascismi il loro esito fu precisamente quello che i loro artefici avevano sempre cercato, desiderato, perseguito: lo sterminio degli “altri”, che andavano annientati o schiavizzati. E i fascismi ci lasciarono in eredità un mondo di rovine.

Una strategia utilizzata dalle destre in Italia per depotenziare le responsabilità del fascismo nella Shoah, e di conseguenza l’impatto della Giornata della memoria, è stata l’istituzione del Giorno del Ricordo.
Su questo, per approfondire, rimando con estrema convinzione a E allora le foibe? di Gobetti. C’è stata come minimo un’imbarazzante ingenuità da parte delle forze che si rifanno all’arco costituzionale nel permettere che attraverso l’istituzione del Giorno del ricordo l’estrema destra italiana suggerisse neanche troppo velatamente una comparazione tra la Shoah e quelle specifiche vicende che andarono in scena sul confine orientale, che videro la morte di circa 5mila persone in due diverse fasi, un numero non trascurabile delle quali era stata convintamente fascista. Si tratta di una dinamica locale che però ha molte situazioni analoghe in tutta Europa, soprattutto nel ’45, nelle ultime settimane e negli ultimi mesi di guerra. Per come è stata scritta la legge istitutiva del Giorno del ricordo e per come è stata coltivata quella memoria specifica, dice opportunamente Gobetti, rischiamo di trovarci di fronte a una “data della memoria fascista”. E questo è estremamente preoccupante in un Paese democratico. Per chi ha a cuore la memoria pubblica di una democrazia come l’Italia, la cosa più urgente sarebbe fare seriamente i conti con i crimini commessi dall’Italia dagli anni Venti agli anni Quaranta e nello specifico nell’occupazione della Jugoslavia dove i nazifascisti fecero un milione di morti. E poi, in un secondo momento, si può anche illuminare quello che è in parte anche un effetto di quella politica di potenza e dell’incubo di un “nuovo ordine mediterraneo” che l’Italia fascista ha inseguito.

 

 

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 22-28 gennaio 2021

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