A colloquio con il rettore e storico dell’arte Tomaso Montanari

Paura di un rettore antifascista? È impressionante quanto inaccettabile il fuoco di fila che si è scatenato su media mainstream contro lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, per il fatto che, senza negare affatto le foibe, ha osato dire che delle foibe è stata fatta una narrazione propagandistica e strumentale. Con politici conservatori ma anche alcuni, nominalmente, progressisti che sono arrivati a chiederne le dimissioni.

Professore, che succede in Italia è sempre più difficile esprimere un articolato pensiero critico?

Purtroppo vedo che in Italia ogni forma di pensiero critico e libero è massimante osteggiata. È stata molto chiara Edith Bruck in una sua recente intervista: dice che c’è troppa tolleranza verso il fascismo in Italia, che così finisce per farla da padrone. Ogni volta che ho espresso una critica radicale alla Lega o ai Fratelli d’Italia, in nome dei valori costituzionali, puntualmente è stato chiesto il mio licenziamento dall’università. Ora come prossimo rettore vengono chieste le mie dimissioni. Ricordo che l’Università è autonoma. Accadeva durante il fascismo che allontanassero i professori.

Nel programma con cui si è candidato a rettore c’è un paragrafo dedicato all’antifascismo.

Sì, non è consueto nel programma dei rettori. Dedicheremo 12 aule ai 12 professori che non giurarono fedeltà al regime. Saremo l’unica università in Italia ad averlo fatto. Non solo non mi dimetto, ma il mio impegno da antifascista crescerà in questo sestennio.

Le accuse del capo leghista nei suoi riguardi non toccano solo le idee, che sono sempre giustamente criticabili, ma vanno a colpire la persona, “vada a farsi curare”, dice lui…

Anche questo è interessante: tutti gli attentatori di Mussolini e tutte le loro famiglie finirono in manicomio. C’è una bella tradizione, direi…

A chiedere le sue dimissioni, mettendole sullo stesso piano di quelle del sottosegretario Durigon che voleva reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini è stato anche Riccardo Nencini presidente del Partito socialista italiano. Che ne pensa?

Il suo è stato un intervento diffamatorio perché parla di negazionismo delle foibe. Non è il mio caso. A questo proposito sto valutando con gli avvocati di chiedere danni. Alla fine lo farò, perché mi sono stufato. Parlando di cose più serie, va detto che in Senato giace un disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia e della Lega che vuole equiparare il negazionismo delle foibe a quello della Shoah. Vogliono l’equiparazione letterale stroncando così definitivamente la libertà di espressione. È evidente il fine: se le foibe sono uguali alla Shoah, il nazismo e il comunismo si equivalgono, questo è il disegno utile a questo progetto “culturale”, ammesso che si possa definire tale.

Quali sono le responsabilità a cui ascrivere questa mistificazione della storia di cui si trovano tracce anche a Bruxelles? A questo proposito ricordiamo per esempio l’equiparazione fra fascismo e comunismo in una risoluzione votata nel 2019…

In Italia il discorso è partito da quello disgraziatissimo di Luciano Violante sui «ragazzi di Salò». E passa attraverso la volontà dei post comunisti di essere integrati nel mondo neoliberista occidentale che ha integrato i fascisti… una mano lava l’altra, dopo il crollo del muro. Violante ha dato a tutto questo un sigillo drammatico. E a livello europeo c’è una perdita di memoria. Lo dico io – ci tengo a dirlo – che non sono mai stato comunista. Io sono un cattolico sociale, un po’ anarchico se vogliamo, ma non sono mai stato comunista, non appartengo a quella tradizione che ho studiato, rispetto e ammiro per tante ragioni. Ma non è la mia storia. Se qualcuno avesse chiesto a Dossetti o a Calamandrei, a qualche cattolico democristiano o a un liberal socialista del Partito d’azione se per loro i comunisti e i fascisti si equivalessero gli avrebbero dato un ceffone, credo. C’è un imbarbarimento culturale spaventoso e per questo si colpisce l’Università e si colpisce un rettore nel silenzio totale della Conferenza dei rettori, della ministra, del presidente della Repubblica. Io non ho avuto solidarietà da nessuno di loro, non è che me la aspettassi, però va detto.

La “querelle” sulle foibe nasce da un suo intervento a proposito della nomina di De Pasquale alla guida dell’Archivio di Stato. Perché il ministro Franceschini ha scelto proprio lui che, in qualità di direttore della Biblioteca nazionale di Roma, ha acquisito il fondo Rauti presentandolo senza adeguata contestualizzazione storico critica?

Sì tutta la faccenda parte da lì. Non che io vada in giro occupandomi di foibe, ma volevo spiegare quale è il contesto del revisionismo in cui nasce la nomina di De Pasquale. Io penso che in questo momento tutto ciò che interessa al ceto politico è la corsa al Quirinale e i voti della Meloni fanno comodo, credo si spieghi così.

In dissenso con quella nomina lei si è dimesso dal Consiglio superiore dei beni culturali. Cosa è accaduto?

Per una scelta del genere, in un Paese serio e civile, si sarebbe dovuto dimettere il Consiglio tutto. Se il Consiglio superiore dice al ministro di dare ascolto al rappresentante della associazione dei familiari delle vittime delle stragi e il ministro nemmeno risponde, contro la nomina di costui l’intero Consiglio, per dignità minima, si sarebbe dovuto dimettere. Perché il ministro in quel modo sta dicendo “non contate niente”. Io mi sono dimesso per un elementare senso di dignità, ma vorrei dire anche per un rispetto delle istituzioni. E per quanto possa sembrare paradossale per rispetto dello stesso ministro che deve essere libero di fare da solo le sciocchezze che fa.

Nella lettera con cui Diana Toccafondi si è a sua volta dimessa dal Consiglio parla di svalutazione delle competenze da parte del ministro. Perché mettere a capo dell’Archivio di Stato un bibliotecario e non un archivista?

In generale svalutare le competenze è funzionale all’asservimento delle persone. In questo caso se metti a capo dell’archivio di Stato uno che non è un archivista, sarà pure un ottimo bibliotecario – ammesso che lo sia – ma non è un archivista. La politica mettendo in posti chiave degli incompetenti si costruisce un bacino di servitori.

E per impedire critiche sui giornali ormai in molti ricorrono alle querele intimidatorie…

La querela intimidatoria è uno strumento odioso, io ne ho avute tante e continuo ad averne. Odioso perché ha che fare con questa congiura del silenzio e con un pensiero unico dominante: ognuno fa quello che vuole ed è indispettito dalle opinioni. A bene vedere tutto ciò restituisce un valore alle opinioni stesse perché evidentemente diamo fastidio, dall’altro lato però rende impossibile lavorare e vivere. È il sintomo della perdita di tessuto democratico; è una delle tante ragioni per cui possiamo dire che siamo in una post democrazia, la nostra non è più una democrazia. Ed è una cosa molto grave.

Intanto c’è chi come il sottosegretario Durigon si permette di proporre una restaurazione inaccettabile: cancellare il nome di Borsellino e Falcone e tornare a dedicare il parco di Latina al fratello di Mussolini. Le sue dimissioni sono arrivate anche troppo tardi.

Le sue parole sono state inaccettabili anche perché non hanno minimamente suscitato una presa di posizione del presidente del Consiglio dei ministri del famoso governo di alto profilo per il quale il presidente Mattarella ha garantito. Entrambi non hanno detto una parola sul caso Durigon. Io trovo che sia gravissimo tutto questo. Proprio perché rischia di legittimare l’idea che siano opinioni accettabili. Certo poi lo si fa dimettere un mese dopo, ma tutto ciò è avvilente. Non c’è nessuna censura delle idee. Le dimissioni erano importanti, ma molto più importante sarebbe stata una lezione di antifascismo e di storia. Ricordo che quel parco fu reintitolato ad Arnaldo Mussolini negli anni Novanta per iniziativa di un sindaco che era veramente fascista che aveva combattuto nella Repubblica sociale italiana, per il quale Oscar Luigi Scalfaro aveva decretato niente meno che la pena di morte. Non si può legittimare la storia della Repubblica sociale.

Con quella proposta Durigon andava contro l’antifascismo da cui nasce la nostra Costituzione ma anche contro la lotta alla mafia.

Due piccioni con una fava, qui bisogna guardare cosa sono diventati la Lega e Fratelli d’Italia al Sud dove hanno imbarcato veramente di tutto. Penso che nei prossimi anni pagheranno anche un prezzo giudiziario per questo sdoganamento.

Non ha detto una parola su questo nemmeno Salvini che un 25 Aprile da ministro andò a Corleone invece che alla manifestazione perché, a suo dire, sarebbe una festa divisiva.

Non mi stupisco, piuttosto temo che presto vedremo al governo una formazione puramente di centrodestra. Tutti i nodi verranno al pettine come è già avvenuto con il governo Conte, ma con la Meloni sarà ancora peggio. Intanto sono molti i segnali preoccupanti di figure istituzionali che indulgono a nostalgie inaccettabili.

Che ne pensa del console “fascio rock” che è stato promosso ambasciatore a Singapore?

È pazzesco che non venga cacciato. Si chiedono le dimissioni di un rettore, che ha espresso una opinione fondata storiograficamente e non deve andarsene un personaggio del genere. Ha proprio ragione la Bruck, c’è troppa tolleranza del fascismo in Italia, anche da parte delle istituzioni della Repubblica e da tutti quelli che dovrebbero difenderla.

Per concludere torniamo a quel che dicevamo all’inizio quando parlavamo del ruolo dell’Università in chiave antifascista. Il suo programma dedica molto spazio all’importanza della ricerca che deve andare di pari passo alla didattica, al pensiero critico, alla lotta contro privilegi e disuguaglianza fra lavoratori anche all’interno dell’ateneo. Che risposte sta ricevendo?

Quello che mi fa più piacere in queste ore di solitudine dal punto di vista istituzionale sono le decine di lettere di dottorandi e studenti che mi arrivano da tutta Italia, anche di colleghi, perché c’è bisogno di uno scossone, di tornare a dire perché abbiamo scelto questo lavoro. L’art. 9 della Costituzione dice che la Repubblica è fondata sulla ricerca e sulla cultura. La cultura non come intrattenimento, ma come vaccino contro il ritorno del fascismo. Ci stiamo trovando drammaticamente sprovvisti del vaccino antifascista, il posto dove si costruisce sono le università e si costruisce con il pensiero critico, come rettore io farò il mio lavoro fino in fondo.


L’intervista prosegue su Left del 3-9 settembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO