Che i Paesi con maggiore impegno finanziario in ricerca e innovazione siano quelli con migliore qualità della vita e Pil, è cosa nota a tutti, addetti ai lavori e non, ma non al più prestigioso ente di ricerca italiano. Come dimostra la scarsa valorizzazione dell’impegno dei suoi ricercatori e tecnologi

L’esperienza della pandemia ha posto in luce l’importanza, spesso misconosciuta, della ricerca scientifica per il benessere della società. Non a caso il piano Next generation Eu dedica spazio alla ricerca, la riconosce come decisiva e promette di valorizzarla: affermazioni riprese, almeno in linea di principio, nel Pnrr. Ma il Covid ha fatto anche emergere imprese scientifiche che non riescono a decollare, ricercatori salutati come eroi emigrati all’estero per mancanza di fondi o di opportunità di carriera. Rispetto agli omologhi europei, il sistema della ricerca italiano si caratterizza per la debolezza legata al cronico sottofinanziamento: il nostro 1,35% del Pil 2017 destinato a ricerca e sviluppo è ben lontano dalla media europea del 2,06.

Al Cnr, il nostro maggiore ente di ricerca, il fondo ordinario erogato dal ministero (circa 650 milioni di euro) basta appena per coprire gli stipendi. Ed è solo l’impegno dei suoi ricercatori e tecnologi nel conquistare finanziamenti competitivi all’esterno per una somma quasi equivalente che permette all’ente di svolgere un’attività di ricerca riconosciuta per la sua eccellenza in moltissimi campi, in nulla inferiore a quella delle realtà più avanzate degli altri Paesi. Ma a differenza di queste realtà (p.e. il Cnrs francese o il tedesco Max Plank Institut), e a differenza anche delle altre istituzioni scientifiche italiane (le Università, ma anche altri enti di ricerca come l’Istituto nazionale di fisica nucleare), il Cnr valorizza poco questo impegno.

Si tratta di un problema molto serio che riemerge periodicamente. Di recente è stato sollevato con allarme sulla stampa ed è oggetto di un’interrogazione presentata dal senatore Gianni Pittella il 7 settembre, in attesa (quando andiamo in stampa) di una risposta da parte della ministra dell’Università e della ricerca, Maria Cristina Messa.
«Secondo quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro – rileva Pittella – il Cnr dovrebbe effettuare concorsi interni con una cadenza biennale al fine di dare la possibilità ai ricercatori e tecnologi meritevoli di fare un avanzamento di carriera passando al livello di primo ricercatore o tecnologo o a quello di dirigente di ricerca o dirigente tecnologo. Negli ultimi 10 anni, invece – prosegue il senatore Pd – sono stati effettuati solo due concorsi interni (2010 e 2020), saltando ben 4 bienni, e quindi con un esiguo numero di posti, decisamente inferiore alle “accumulate” esigenze del personale ricercatore e tecnologo. Ciò ha prodotto, in questo ultimo decennio, un’enorme disparità della distribuzione di livelli tra il Cnr, l’università ed altri enti quali l’Infn».

L’entità del divario si coglie a colpo d’occhio dai grafici a corredo di questo articolo. Al Cnr come in altre strutture scientifiche, il personale di ricerca è distribuito su tre livelli. Ma mentre altrove più della metà si colloca nei primi due livelli, e almeno un quinto in quello di maggiore responsabilità, al Cnr questi numeri sono incredibilmente ridotti, anche rispetto alla normativa del Dpr 171/91, che prevedeva di riservare 20% dell’organico ai ruoli apicali dei dirigenti e un altro un 40% a quello intermedio dei primi ricercatori e primi tecnologi. Avere invece solo il 10% nel primo livello e il 19% nel secondo (quando l’università, per intenderci, ha rispettivamente un 30% di professori ordinari e un 48 di associati), non crea soltanto disagio ai ricercatori, che vedono mortificate le proprie capacità. Certo, questa ridottissima possibilità di carriera disconosce la qualità scientifica maturata negli anni, demotiva le persone migliori, talora le spinge a cercare opportunità altrove. Cioè, spesso, all’estero.

Chi dunque ci perde è innanzitutto il nostro sistema nel complesso, e in un momento in cui servirebbe tutt’altra determinazione. Che i Paesi con maggiore impegno finanziario in Ricerca scientifica e innovazione tecnologica siano quelli con maggiore Pil e migliore qualità della vita, è cosa nota a tutti. Ed è con questi che il nostro Paese collabora e compete sulla scena globale. In ambiente internazionale, quando ci si rapporta con ricercatori di altri enti, si partecipa al bando per un finanziamento o a un progetto europeo, essere in grado di schierare un buon numero di ricercatori di primo livello aiuta a presentarsi forti, non meno qualificati degli altri. Nelle relazioni scientifiche, nelle relazioni istituzionali, ma anche in quelle con il mondo produttivo, spesso la posizione dell’interlocutore è determinante per la propria credibilità, e anche per la propria capacità di attrarre finanziamenti.

L’esigenza di garantire continuità all’avanzamento dei ricercatori è riconosciuta dallo stesso contratto nazionale del Cnr, che prevede di tenere ogni due anni dei concorsi interni destinati alle progressioni di carriera. Questo in teoria: in pratica, viceversa, negli ultimi dieci anni, come rilevato anche da Pittella, ci sono stati solo due bandi, nel 2010 e nel 2020, a causa della mancanza di risorse destinate a questa voce.

L’ultimo concorso, quello bandito nel 2020, è stato fortemente selettivo. La stessa preparazione della domanda richiedeva non poco impegno: giornate intere sottratte agli impegni di ricerca e dedicate a compilare una modulistica farraginosa. Molti ricercatori hanno preferito non partecipare. La valutazione delle commissioni è stata severa e la maggior parte dei candidati non ha conseguito l’idoneità; ma anche di quel terzo che ha passato la selezione (1.334) meno di uno su tre soltanto (520) ha potuto effettivamente conquistare i pochi posti di dirigente di ricerca o di primo ricercatore messi a disposizione. Circa 800 scienziati, selezionati accuratamente in base alle loro pubblicazioni, ai progetti che dirigono e ai finanziamenti che hanno ottenuto, sono rimasti esclusi, spesso a pochi decimi di punto di distanza dai vincitori. Idonei, cioè riconosciuti dalle rispettive commissioni in grado di assumere responsabilità più importanti, e però nell’impossibilità di farlo. Un loro passaggio di ruolo contribuirebbe a ridurre lo squilibrio fra i livelli (si calcola che porterebbe le percentuali dei primi due rispettivamente al 13 e al 27%), rafforzando la posizione della ricerca italiana nel panorama globale,

Da un lato, dunque, abbiamo un ente fortemente penalizzato dallo schiacciamento del proprio personale scientifico. Dall’altro una platea di persone molto qualificate, già valutate in grado di assumere le responsabilità necessarie. La soluzione, in attesa di un prossimo concorso che non sembra alle porte e che comunque sarebbe già ampiamente in ritardo rispetto alla cadenza biennale, parrebbe ovvia. Tanto più che in passato, in situazioni analoghe, è stata già praticata, attingendo alle liste degli idonei e immettendoli nel ruolo superiore. L’incremento di spesa per gli stipendi sarebbe modesto, poiché molti degli interessati hanno già maturato una lunga anzianità di carriera: il costo di un totale scorrimento della graduatoria degli idonei è valutabile in 5,5 mln/anno, e sarebbe compensato dal rilancio di efficienza e autorevolezza che l’ente guadagnerebbe, anche nel concorrere a finanziamenti esterni. Ci sono dei precedenti appunto. Lo si è fatto anche nelle due precedenti tornate concorsuali. E ci sarebbero, se si vuole, le risorse. Ma proprio di recente circa 4 milioni di euro, residuati proprio dallo stanziamento previsto per il concorso, sono stati invece allocati dall’ente sul proprio fondo di tutela dai contenziosi. Conservarli nella destinazione originaria, segnala l’interpellanza sopra citata, avrebbe consentito la progressione di carriera di almeno un centinaio di idonei.

Siamo in un momento cruciale, in cui si decide del nostro futuro. La recente nomina di Maria Chiara Carrozza al vertice del Cnr, nel ruolo che fu di Guglielmo Marconi e di Vito Volterra, è stata accolta con favore dalla comunità scientifica. Non sprecare un patrimonio di persone selezionate, motivate, pronte ad impegnarsi con rinnovato entusiasmo non è certamente ciò da cui tutto dipende. Ma tutto dipende in effetti anche da scelte di questo tipo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’articolo è tratto da Left del 17-23 settembre 2021

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SOMMARIO

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).