Mancano ormai pochi giorni al termine di questa poco attraente campagna elettorale per le amministrative di varie città e regioni, in cui però ben 12 milioni di italiani saranno chiamati a esprimere un voto. Competizioni dove la sinistra e l’intero centrosinistra non hanno brillato, per l’ennesima volta, diciamocelo, per unità di intenti, visione, progetto.
Si va da Sinistra italiana che, insieme a Rifondazione comunista, si pone all’opposizione al governo Draghi, sostenuto dal Partito democratico, e al tempo stesso partecipa alla coalizione di centrosinistra a Roma, con il Pd ma stavolta senza Rifondazione comunista, di cui però era alleata alle Europee, in nome del “sennò vince la destra”. E però Sinistra italiana è di nuovo in competizione, di nuovo insieme a Rifondazione comunista, con il Pd in Calabria, dove per cui, evidentemente, si può lasciar vincere la destra. E poi Articolo uno che appoggia Draghi ma è in coalizione a Roma con Sinistra italiana, e però in Calabria è in competizione sia contro il Pd sia contro Sinistra italiana e Rifondazione e in appoggio ad Oliverio, Pd ma in veste di civico. E che dire dello stesso Pd, in alleanza a Roma con Sinistra italiana, ma non in Calabria, che è addirittura riuscito a competere con sè stesso, risultando in competizione a Napoli contro Bassolino, già suo ex-sindaco di Napoli per due mandati e già suo ex-presidente di Regione, e ancora in competizione contro Oliverio in Calabria, già suo ultimo ex-presidente di Regione.
E le alleanze con i Cinque stelle? A Torino per ora no, in Calabria invece sì, a Roma di nuovo no, ma poi vediamo al ballottaggio? Dinamiche locali, si dice in questi casi. Come se, ad esempio, partecipare all’elogio dell’autonomia regionale o avversarla fosse la stessa cosa e fosse anch’essa dinamica locale. In realtà, agli occhi dell’elettore medio, l’immagine resta di una confusa e diffusa frammentazione, scarsa chiarezza di idee: “ognuno va per sé”.
Ma tant’è, in un modo o nell’altro queste elezioni passeranno. Qualcuno vincerà, qualcuno no, e anzi, probabilmente, tutti avranno modo di trovare una qualche “indicazione”, comunque vada, di soddisfazione e conferma nel voto del proprio agire. Ma un attimo dopo il responso delle urne – anzi in un Paese serio ben prima – è lecito chiedere alla propria presunta classe dirigente un tentativo di lungimiranza, chiedere se hanno presente che il prossimo anno o al massimo nel 2023 si terranno le elezioni politiche e che, quelle no, non avranno dinamiche locali? Una scadenza elettorale che rappresenta uno spartiacque per il Paese, tra populismo e liberismo, o alternativa. È lecito, chiedere di cominciare a pensare fin da ora su come presentarsi al Paese in quella, apparentemente lontana, scadenza?
Certo si dirà che un simile discorso è prematuro. Ma i processi, le coalizioni, i programmi, le visioni, le scelte si costruiscono. Non arrivano “obbligate” agli ultimi giorni. Il Pd continuerà a inseguire il “contismo”, quale punto di riferimento o virerà, come pare, verso il “draghismo”? Art1 deciderà se rientrare nel ventre rassicurante del Pd (già oggi si vedono “prove di rientro”) o parteciperà non occasionalmente al confronto con gli altri soggetti di sinistra? Il resto della compagnia continuerà con incomprensibili lotte intestine, più o meno identitarie, continuerà a proporre, ma non realizzare, improbabili Reti, se non locali, senza regole comuni, tutte femministe, ecologiste, socialiste o ancora nuove coalizioni civiche (che poi in fondo civiche non sono, ma servono spesso a mascherare simboli o personaggi poco attrattivi), o addirittura proporrà nuove “Liberi e uguali”?
E a proposito di Leu, e dei qui paventati percorsi dell’ultimo minuto, ricordiamo che a suo tempo si propose come lista elettorale, con la promessa di diventare partito subito dopo le elezioni, e il motivo era la scadenza ravvicinata e per quella trasformazione non c’era il tempo sufficiente: sappiamo come andò a finire.
Non si vorrà arrivare alla prossima scadenza dicendo ancora una volta che non c’è stato il tempo sufficiente? Si può legittimamente pretendere che una classe dirigente si ponga il problema di come affrontare elezioni che vedranno, per la prima volta, il dimezzamento dei parlamentari? E che probabilmente si andrà a votare senza una riforma, tanto meno di tipo proporzionale, del sistema di voto? E in questo non si finirà mai abbastanza di ringraziare il Pd che ha consentito ciò facendosi bastare le promesse interessate dei Cinque stelle?
Una classe dirigente ha il dovere di vedere più in là del proprio naso, di immaginare, di cercare interlocutori e verificarne la bontà, di provare a costruire, di fallire magari ma di provarci. Di arrivare alla scadenza con un tratto chiaro di percorso definito. Non di vivacchiare con estenuanti riunioni tra militanti dove dirsi di tutto, per poi trovarsi alla scadenza con i giochi “indefiniti”, con gli elettori ai quali non resta che l’accettazione supina di tradizionali accordi degli ultimi giorni.
Insomma, la sinistra vuole provare a costruire un progetto o si accontenta di sopravvivere (laddove la sopravvivenza in genere riguarda semplicemente le segreterie)? Continueremo ancora a ballare tra “tempi prematuri” e “non c’è tempo”? E ciò al di là, o anche sulla base, degli esiti delle amministrative di ottobre. Verrebbe da dire: se non ora, quando? A futura memoria.
* L’autore: Lionello Fittante è tra i promotori degli Autoconvocati di Leu,
ed ex componente del Comitato nazionale èViva!