Avevamo sentito Mimmo Lucano pochissimi giorni fa, per l’intervista che trovate nel nuovo numero di Left. Lo abbiamo sentito volare alto, parlare, finalmente, di futuro, di speranze, con una tranquillità nel tono della voce, nell’argomentare che facevano pensare ad una persecuzione quantomeno assopita. La sentenza della procura di Locri, giunta pochi minuti fa, - sentenza di primo grado, importante ricordarlo - giunge come un fulmine a ciel sereno. Dovremo attendere il deposito delle motivazioni per poter capire almeno le ragioni di una condanna, 13 anni, quasi doppia rispetto a quanto richiesto dall’accusa. I reati contestati sono degni di un boss mafioso, di un trafficante, di un sordido individuo dedito alla corruzione: associazione per delinquere, abuso d'ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d'asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Ma chi ha emesso la condanna sa almeno come viveva e come vive Mimmo Lucano? Come si guadagna da vivere dopo 4 anni di gogna mediatica e processuale? Attendiamo le motivazioni ma è difficile non percepire, per chi ha avuto il privilegio di condividere la storia di questo straordinario compagno di viaggio, la vendetta di un sistema di potere che lo vuole veder sparire. In una terra e fra una popolazione vessata dalle organizzazioni mafiose, in cui il voto, i consensi, gli appalti, la stessa sopravvivenza attengono sovente a meccanismi di violenza predatoria inimmaginabili, le stesse parole di Mimmo Lucano sono un rumore molesto. Un tempo, parole di questo tipo venivano fermate con altri mezzi, in questo caso è inevitabile pensare che forme di potere costituito abbiano provveduto con simile violenza. Perché Mimmo Lucano, candidato in una lista alle elezioni regionali in Calabria, parla in questo periodo meno di se e più dei problemi della sua terra. Parla di sanità, in una regione in cui, nonostante questa rappresenti la principale spesa, le persone sono costrette a curarsi nel resto del Paese perché le strutture pubbliche sono state chiuse o abbandonate. Parla di lavoro, dove lavoro nero, sfruttamento, di autoctoni e migranti è la norma, di clientelismi. Ma parla anche di tante splendide persone che non accettano e si ribellano al sistema di potere, che, magari divise, si ritrovano a condividere gli stessi valori della storia più bella di quella terra, dei sindaci anti 'ndrangheta, dei giornalisti e delle giornaliste minacciate, dei giovani che sono riusciti a non migrare e cercano, giorno dopo giorno, di riscattare con tutte le forze a disposizione la propria libertà. La vicenda di Mimmo Lucano e di Riace non parla unicamente di accoglienza, di migranti, di solidarietà verso gli ultimi che arrivano da lontano. È una vicenda politica, non solo umana, che mette in connessione chi sembra non poter aver futuro indipendentemente dal paese di provenienza, dalla cultura. Chi viene messo in connessione e non si sente più solo, marginale o, meglio ancora marginalizzato, può reagire, rifiutare il fatalismo di un sistema clientelare. Come non pensare che – facendo torto a chi amministra con serietà la giustizia – questa condanna sia un monito rivolto a chi alza la testa? Il popolo dei social di cui spesso si parla perché accusato di essere volano d’odio, sovente invece raccoglie con estrema velocità e prontezza i messaggi positivi di chi non accetta l’inevitabile. Giungono già notizie di mobilitazioni per Mimmo Lucano a Riace, in Calabria, a Roma e in altre città d’Italia. Se quest’uomo rimasto povero e spesso isolato per aver mantenuto i propri ideali, quelli che da giovane lo portarono a scegliere da che parte stare dopo la morte di Peppino Impastato, fa paura al punto, non solo di non trasmettere una fiction già prodotta su di lui dalla Rai, ma da proporre addirittura che lo si trascini in carcere, magari in manette, c’è qualcosa di profondo da analizzare. Forse c’è anche la fragilità di un potere marcio per cui la presenza di simboli concreti, capaci di affrontare la realtà rappresenta un pericolo concreto, da fermare. L’ex sindaco di un minuscolo paesino della Calabria è uno di questi simboli. Non lasciamolo solo, restiamo orgogliosamente suoi complici.   🆙  Bastano pochi click! 🔴  Clicca sull'immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti ---> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, vai sull'opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <--- [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]
Per approfondire, leggi l'intervista a Mimmo Lucano su Left dell'1-8 ottobre 2021
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Avevamo sentito Mimmo Lucano pochissimi giorni fa, per l’intervista che trovate nel nuovo numero di Left. Lo abbiamo sentito volare alto, parlare, finalmente, di futuro, di speranze, con una tranquillità nel tono della voce, nell’argomentare che facevano pensare ad una persecuzione quantomeno assopita. La sentenza della procura di Locri, giunta pochi minuti fa, – sentenza di primo grado, importante ricordarlo – giunge come un fulmine a ciel sereno. Dovremo attendere il deposito delle motivazioni per poter capire almeno le ragioni di una condanna, 13 anni, quasi doppia rispetto a quanto richiesto dall’accusa. I reati contestati sono degni di un boss mafioso, di un trafficante, di un sordido individuo dedito alla corruzione: associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma chi ha emesso la condanna sa almeno come viveva e come vive Mimmo Lucano? Come si guadagna da vivere dopo 4 anni di gogna mediatica e processuale?

Attendiamo le motivazioni ma è difficile non percepire, per chi ha avuto il privilegio di condividere la storia di questo straordinario compagno di viaggio, la vendetta di un sistema di potere che lo vuole veder sparire. In una terra e fra una popolazione vessata dalle organizzazioni mafiose, in cui il voto, i consensi, gli appalti, la stessa sopravvivenza attengono sovente a meccanismi di violenza predatoria inimmaginabili, le stesse parole di Mimmo Lucano sono un rumore molesto.

Un tempo, parole di questo tipo venivano fermate con altri mezzi, in questo caso è inevitabile pensare che forme di potere costituito abbiano provveduto con simile violenza. Perché Mimmo Lucano, candidato in una lista alle elezioni regionali in Calabria, parla in questo periodo meno di se e più dei problemi della sua terra. Parla di sanità, in una regione in cui, nonostante questa rappresenti la principale spesa, le persone sono costrette a curarsi nel resto del Paese perché le strutture pubbliche sono state chiuse o abbandonate. Parla di lavoro, dove lavoro nero, sfruttamento, di autoctoni e migranti è la norma, di clientelismi.

Ma parla anche di tante splendide persone che non accettano e si ribellano al sistema di potere, che, magari divise, si ritrovano a condividere gli stessi valori della storia più bella di quella terra, dei sindaci anti ‘ndrangheta, dei giornalisti e delle giornaliste minacciate, dei giovani che sono riusciti a non migrare e cercano, giorno dopo giorno, di riscattare con tutte le forze a disposizione la propria libertà. La vicenda di Mimmo Lucano e di Riace non parla unicamente di accoglienza, di migranti, di solidarietà verso gli ultimi che arrivano da lontano. È una vicenda politica, non solo umana, che mette in connessione chi sembra non poter aver futuro indipendentemente dal paese di provenienza, dalla cultura. Chi viene messo in connessione e non si sente più solo, marginale o, meglio ancora marginalizzato, può reagire, rifiutare il fatalismo di un sistema clientelare. Come non pensare che – facendo torto a chi amministra con serietà la giustizia – questa condanna sia un monito rivolto a chi alza la testa? Il popolo dei social di cui spesso si parla perché accusato di essere volano d’odio, sovente invece raccoglie con estrema velocità e prontezza i messaggi positivi di chi non accetta l’inevitabile.

Giungono già notizie di mobilitazioni per Mimmo Lucano a Riace, in Calabria, a Roma e in altre città d’Italia. Se quest’uomo rimasto povero e spesso isolato per aver mantenuto i propri ideali, quelli che da giovane lo portarono a scegliere da che parte stare dopo la morte di Peppino Impastato, fa paura al punto, non solo di non trasmettere una fiction già prodotta su di lui dalla Rai, ma da proporre addirittura che lo si trascini in carcere, magari in manette, c’è qualcosa di profondo da analizzare. Forse c’è anche la fragilità di un potere marcio per cui la presenza di simboli concreti, capaci di affrontare la realtà rappresenta un pericolo concreto, da fermare. L’ex sindaco di un minuscolo paesino della Calabria è uno di questi simboli. Non lasciamolo solo, restiamo orgogliosamente suoi complici.

 

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