Papa Francesco ha dichiarato di provare un sentimento di vergogna nell’apprendere i risultati dei lavori della commissione d’inchiesta francese sugli abusi commessi dai membri del clero di quel paese. Un teologo italiano, Pierangelo Sequeri, sulle pagine di Avvenire, ha anche invocato la necessità, per la Chiesa, di una vera e propria espiazione, di avviare un processo di cambiamento che richiederà, sono parole sue, “lacrime e sangue”. Bene, anzi benissimo. Fa piacere costatare che i vertici della Chiesa cattolica inizino a essere finalmente consapevoli delle ferite gigantesche che tanti sacerdoti hanno inflitto a tantissimi fedeli, in Francia come nel resto del mondo. Il rifiuto sdegnoso di affrontare l’argomento, l’accusa rivolta a chi ne parlava di volere solo la rovina della Chiesa che hanno caratterizzato l’atteggiamento dell’istituzione sino a pochi anni fa (al papato di Giovanni Paolo II) sono ormai definitivamente alle nostre spalle. E del resto sarebbe ormai difficile, per i gerarchi cattolici, pronunciare discorsi diversi, visto l’atteggiamento intransigente di un’opinione pubblica adulta non più disposta a tollerare le violenze e gli abusi del clero sui propri figlioli.
Detto questo, occorre anche ribadire che i gesti e le parole di contrizione non bastano a risolvere il problema. Anzi, al contrario, rischiano di fornire l’impressione, pericolosa, fuorviante e del tutto sbagliata, che la questione sia ormai archiviata, che quello degli abusi clericali sia un affare che riguarda essenzialmente il passato e che la richiesta di perdono del papa equivalga a quella dell’incolpevole Willy Brandt messosi in ginocchio di fronte al memoriale della Shoah a Varsavia venticinque anni dopo la fine del Terzo Reich.
No, il dramma non è archiviato e le poche timidissime misure prese sinora dal papa per contrastarlo riguardano essenzialmente le cosiddette “coperture” delle quali i preti abusatori hanno goduto da parte dei loro superiori: in definitiva, d’ora in poi sarà un po’ più complicato e rischioso per un vescovo garantire l’impunità di un suo sacerdote colpevole di abusi ed evitare lo scandalo che immancabilmente ne consegue.
Occorre infatti ricordare che quello delle coperture è l’ultimo (in termini di tempo) dei fattori implicati nell’abuso, dal momento che l’eventuale (sinora quasi certa) complicità dei superiori giunge quando il crimine è già stato commesso e mai prima.
Questo significa che, per sradicare la mala pianta degli abusi sessuali clericali ed escludendo l’ipotesi ridicola che essa sia stata generata da alcune isolate “mele marce”, cioè da pervertiti infiltratisi a tradimento nelle fila del clero, dobbiamo cercare le ragioni per le quali gli abusi vengono commessi in così larga misura dai membri del clero cattolico.
Io sono da tempo convinto che la principale di tali ragioni risieda nella dottrina cattolica della sessualità e in particolare nella disciplina del celibato obbligatorio per il clero. Mi limito a citare solo una tra le tante conseguenze dell’applicazione di questo antico istituto messe in luce dalla letteratura scientifica internazionale: la profonda immaturità sessuale e umana dei presbiteri. Essa consegue al fatto che la formazione degli aspiranti sacerdoti si svolge, per quel che riguarda i fattori affettivi e sessuali, tutta all’insegna della colpa, del rimorso, dell’inadeguatezza rispetto all’ideale e mai a quella di una crescita armonica ed equilibrata. Come ho raccontato ne La casta dei casti (Bompiani, 2021), di sesso e di amore nei seminari non si parla, le prime esperienze amorose dei preti sono spesso tardive e poco soddisfacenti così come largamente approssimativo e incompleto è il loro bagaglio di conoscenze sulla sessualità. Il risultato è una spiccata immaturità sessuale rispetto al resto della coetanea popolazione maschile, un grave ritardo nello sviluppo di un sano e fisiologico rapporto con il desiderio sessuale e la corporeità e una sistematica associazione del piacere sessuale alla mancanza e al peccato. Alcuni preti rimangono a lungo, su questo versante, in uno stadio infantile e immaturo, dominato dalla masturbazione (spesso ossessiva) e da un castello di fantasie e di fantasmi, tanto attraenti e seduttivi quanto repellenti e spaventosi.
Peraltro l’immaturità è un elemento che non riguarda solo la sfera della sessualità e dell’affettività, ma l’intera personalità di tanti membri del clero. Il fatto è che, nella vita in seminario, i futuri sacerdoti, tutti almeno ventenni, vengono sistematicamente e radicalmente infantilizzati, trattati come bambini totalmente incapaci di agire in modo autonomo. La loro esistenza è regolata dall’istituzione in ogni minimo dettaglio e tutte le comunicazioni all’esterno e all’interno del seminario sono oggetto di una costante rigidissima sorveglianza. La conseguenza consiste nella crescita nei seminaristi, da un lato, di una peculiare capacità di eliminare o circoscrivere nei loro comportamenti esteriori e pubblici tutti i sintomi di pose non conformi alle aspettative dell’istituzione e quindi di mentire e nascondere i loro sentimenti autentici, dall’altro dell’abitudine a considerare importante e temibile solo ciò che proviene dall’alto, dai loro superiori, dai dirigenti dell’organizzazione e a considerare invece irrilevanti i bisogni e gli interessi di chi occupa una posizione inferiore alla loro nella gerarchia, quindi in primo luogo i fedeli, le pecorelle del gregge concepite immancabilmente come creature da guidare con sapienza e fermezza e non come persone alle quali rispondere con responsabilità e rispetto. Entrambe queste caratteristiche giocano una parte importante nella generazione degli abusi anche per vie meno prevedibili, quindi non solo per l’ovvia circostanza che molti preti si trovano tragicamente in uno stadio di maturazione sessuale simile a quello delle loro vittime.
Concludendo, se il papa vuole davvero mettere un freno al dilagare di questo fenomeno deve avere il coraggio di affrontare di petto la questione dell’obbligo celibatario e delle sue nefaste conseguenze. Lo può fare convocando un sinodo straordinario sui ministeri (quello che tanti cattolici hanno chiesto invano in questi anni) o nel modo che preferisce. Ma questo deve fare. Hic Rhodus, hic salta! Solo così le richieste di perdono e il dispiacere espresso in pubblico diventeranno le premesse di una stagione davvero nuova.
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