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È ben noto del resto (e non da ora) che l’algoritmo dei social più diffusi e in particolare Instragram premia in visibilità una comunicazione fotografica che esalta la perfezione della figura fisica, definita in base a freddi standard. Quanto tutto questo può impattare su chi attraversa una fase vitale di cambiamento come l’adolescenza? Che cosa può provocare nella mente di quella fetta di giovanissimi che hanno delle fragilità? E più in generale quanto i ragazzi sono invece capaci di fare un uso critico dei social, di reagire e dribblare i loro meccanismi?
Abbiamo preso spunto dalla cronaca di questi giorni e settimane per tornare a mettere al centro una questione importantissima: la salute mentale dei più giovani che durante questi due lunghi anni di pandemia e di dad, perlopiù, hanno avuto a disposizione solo il web per comunicare con i propri amici e compagni. Ne abbiamo parlato in primo luogo proprio con loro e, come leggerete, le loro risposte sono sorprendenti per vitalità, intelligenza, bellezza. E ne abbiamo parlato con i maggiori esperti di social media e soprattutto con psichiatri e psicoterapeuti dell’età evolutiva. Il quadro che emerge è complesso e sfaccettato: se i social certamente non vanno demonizzati e anzi possono essere uno straordinario strumento di comunicazione, di espressione e di realizzazione di sé, dall’altra parte non possiamo chiudere gli occhi sui meccanismi di un capitalismo delle piattaforme che usa le persone come merce. Nel libro Facebook: l’inchiesta finale (da poco pubblicato da Einaudi) Sheera Frenkel e Cecilia Kang che rispettivamente si occupano di cybersecurity e nuove tecnologie e politica per il New York Times scrivono che «per anni Facebook si è avvalsa di una strategia spietata basata sul bury or buy, compra o soccombi, per eliminare la concorrenza. Ne è risultato un potente monopolio che ha fatto grossi danni. Ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi raggiungendo tre miliardi di persone». Lo strumento principe è stata una strategia pubblicitaria «innovativa e deleteria che sorvegliava gli utenti per ricavarne dati personali». In pratica più tempo passano gli utenti sulla piattaforma, maggiori sono i dati che vengono estratti. «Per usare Facebook gli utenti non danno denaro. Cedono il proprio tempo, la propria attenzione e i propri dati personali».
Si tratta di un modello di business che usa i dati umani come strumenti economici scambiati sui mercati come fossero futures sul granoturco o sulla pancetta» scrivono le due giornaliste del NYT. Li usa con un sistema che funziona per contagio come ha spiegato Shoshana Zuboff in un testo che è già un classico, Il capitalismo della sorveglianza. Questo significa che dovremmo tutti fuggire dai social che appartengono a piattaforme monopolistiche private? Non pensiamo che la soluzione possa venire da un passo indietro. Casomai da un passo in avanti, immaginando – perché no – piattaforme pubbliche come suggerisce anche Edoardo Fleischner in questa storia di copertina. E soprattutto significa che la scuola e le famiglie dovrebbero far crescere nei giovanissimi senso critico nell’uso di questi strumenti, che in prospettiva potrebbero diventare sempre più invasivi.
Nei giorni scorsi Zuckerberg ha lanciato il “progetto metaverso” per far sì che i social sempre più utilizzino l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata per offrire esperienze immersive, sulla scorta di quanto già fanno molti videogiochi. Il lancio di metaverso, insieme alla promessa di creare con Facebook 10mila posti di lavoro in Europa, arrivano non a caso dopo il recente blackout mondiale e le inchieste dei media anglosassoni e certamente questi annunci hanno a che fare con una strategia propagandistica. Sarà comunque importante osservarne attentamente gli sviluppi.
L’uso razionale dell’essere umano come fosse una merce a fini di profitto non è mai innocuo e senza conseguenze. Specie se quella persona è ancora in una fase bella e delicata della crescita.
Foto di Mohit Maurya da Pixabay
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