Una ex dipendente di Facebook divulga i risultati di un’indagine interna del gruppo di Zuckerberg dalla quale emerge che Instagram ha provocato ansia e depressione in adolescenti vulnerabili. Cosa c’è di vero? E in che modo i social gestiscono la diffusione dei contenuti a livello globale? Ne parliamo con l’esperto di media Edoardo Fleischner

Prima è arrivata la bomba di metà settembre, sganciata dal Wall Street journal: Facebook sa che Instagram sarebbe pericoloso per la salute mentale delle adolescenti, ma ancora non ha preso alcun provvedimento. Poi a inizio ottobre c’è stato il lungo stop (quasi sei ore) di Facebook, Instagram e Whatsapp (brand che fanno parte del medesimo gruppo capitanato da Fb), costato a Mark Zuckerberg oltre 6 miliardi di dollari. Infine la deposizione al Senato Usa di Frances Haugen, la ex dipendente della azienda di Menlo Park che ha fatto trapelare gli studi interni dedicati agli effetti negativi dei social sui ragazzini e ha permesso così la serie di inchieste del Wall Street journal.

Insomma, non tira certo una bella aria dalle parti dell’azienda di Zuckerberg, nell’occhio del ciclone di stampa e opinione pubblica in particolare nel mondo anglosassone.

In una slide che compone i dossier consegnati al Wsj da Haugen, e poi pubblicati da Facebook stesso poco prima che la whistleblower – dopo essere uscita allo scoperto – fosse interrogata davanti alla commissione del Senato, si legge che il 32% delle adolescenti ha affermato che quando si sentivano male per il proprio corpo, Instagram le faceva sentire peggio. Da un altro documento si evince che diversi adolescenti incolpano Instagram per l’aumento del tasso di ansia e depressione. Tra i teenager che manifestano “pensieri suicidi”, il 13% dei britannici intervistati e il 6% degli statunitensi fanno risalire questo pensiero a Instagram, indicava un’altra presentazione a uso dei dipendenti.

Un quadro che diventa ancora più allarmante se si aggiunge che da tempo Facebook era al lavoro per il lancio di Instagram Kids, definito come «un’esperienza Instagram ad hoc per i ragazzi e le ragazze sotto i 13 anni». Ora questo progetto risulta ufficialmente sospeso. Nel commentare la vicenda, oltreoceano, c’è chi ha paragonato queste rivelazioni a quelle che fecero vacillare i colossi delle sigarette – colpevoli di aver ingannato i consumatori sugli effetti tossici e cancerogeni del fumo – e che portarono a grandi cambiamenti nel settore.

È pur vero che, come ha ricordato Facebook nei suoi lunghi comunicati in difesa del proprio operato, la ricerca resa pubblica da Haugen parla anche di effetti positivi di Instagram sulla vita degli adolescenti e il campione su cui si basava lo studio era piccolo e non indicativo. D’altro canto, stiamo parlando di studi i cui dati non sono trasparenti, risultano inaccessibili a ricercatori indipendenti per ulteriori analisi, dunque occorre fare estrema attenzione prima di trarre conclusioni avventate. Ma Haugen si è spinta oltre la questione della salute mentale dei minori. «Sono qui oggi – ha dichiarato in Senato – perché credo che i prodotti Facebook danneggino i bambini, alimentino la divisione e indeboliscano la nostra democrazia. La leadership dell’azienda sa come rendere più sicuri Facebook e Instagram, ma non apporterà i cambiamenti necessari. Perché ha messo i suoi profitti astronomici prima delle persone».

Secondo i documenti interni che Haugen, prima di abbandonare Facebook, aveva copiato di nascosto (parliamo di migliaia di pagine) l’azienda avrebbe mentito sui progressi per contrastare hate speech, violenza e disinformazione. Alla base del problema ci sarebbero gli algoritmi introdotti nel 2018, a detta della whistleblower pensati per aumentare l’engagement (ossia il coinvolgimento degli utenti) anche al costo di instillare odio e paura nei cittadini. Perché «è più facile infondere nelle persone la rabbia che altre emozioni» ha dichiarato Haugen.

Da un documento di marzo 2021 si evincerebbe che solo il 3-5% dei contenuti di odio sono intercettati da Facebook, a causa dei limiti delle prassi umane e automatizzate di moderazione, e dunque circa il 95% dei post che violano le norme di Facebook in quanto hate speech passano tra le larghe maglie dei controlli, a differenza di quanto spesso dichiarato dai vertici della azienda. Inoltre, secondo altri dossier, Facebook investirebbe l’87% del proprio budget dedicato alla lotta contro la disinformazione per topic e utenti degli Stati Uniti, anche se coloro che usano i social negli States sono circa il 10% degli utenti totali attivi ogni giorno nella piattaforma. Questa politica avrebbe dunque esacerbato lo “spread” di discorsi di odio e fake news nei Paesi non occidentali, dunque anche in zone dove i conflitti interni e l’instabilità politica avrebbero dovuto suggerire un maggior controllo di questi canali di comunicazione al fine di evitare un’escalation della violenza nei confronti della popolazione civile e in particolare delle minoranze.
Questo dato conferma un’evidenza: l’attenzione mediatica nei confronti dei social network è massima nel mondo anglosassone e in particolare negli Usa. E se vogliamo capirne le ragioni profonde, bisogna addentrarsi nella geopolitica e nella storia degli States. Ne è convinto Edoardo Fleischner, docente di Comunicazione crossmediale all’Università degli Studi di Milano e autore, insieme a Emilio Targia, del format di approfondimento Media e dintorni su Radio radicale.
«Per capire il…»…


L’inchiesta prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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