C'è già una proposta della Commissione europea sulla retribuzione minima, ma è indicativa e debolissima

Nell’ultimo quarantennio abbiamo assistito a quella che Luciano Gallino ha definito “lotta di classe rovesciata”, agita dai padroni per riprendere il controllo totale sui profitti estendendoli senza freni. La partita si è giocata su due aspetti fondamentali. L’inflazione e le conseguenti politiche “monetaristiche” al centro dell’Europa di Maastricht. La globalizzazione del mercato del lavoro e della finanza. Sul primo aspetto l’Italia fu un apripista con le politiche dei redditi di La Malfa, l’accusa ai salari di provocare l’inflazione e il revisionismo per cui l’inflazione stessa sarebbe stata il nemico principale dei salari. La stretta sul Pci e sulla Cgil fu fortissima e culminò con l’assalto craxiano, e non solo, alla Scala mobile, quello strumento che serviva a tutelare il potere d’acquisto dei salari, adeguandoli in automatico all’aumento del costo della vita. Nel frattempo il Sistema monetario europeo (entrato in vigore nel 1979, ndr) cioè il primo passaggio a politiche europee di controllo monetaristiche, fa capire che il controllo accompagnerà anche processi di ristrutturazione produttiva favorevoli a più alti saggi di profitto. Il Pci avverte l’una e l’altra minaccia ma, sconfitto sulla Scala mobile, e minato nella propria autonomia di lettura, perderà la presa fino a cambiare punto di vista e ragion d’essere dallo scioglimento in poi. La sequenza “via la Scala mobile, firma di Maastricht, accordi concertativi del ’92/’93”, con lo scioglimento del Pci stesso, diventa ancora più impressionante se si leggono oggi i dati sull’andamento dei salari in Italia. L’unico Paese in Europa a registrare oggi un salario reale peggiore del 1990, come emerge da un’analisi di OpenPolis.

Tra il 1990 e il 2020, infatti, nel nostro Paese si è registrato un calo del salario medio annuale pari al 2,9%. Crescono di più i salari nei Paesi del vecchio blocco dell’Est, dove si partiva molto bassi. Ma in Germania e in Francia, per esempio, i salari medi hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7% e del 31,1%, nonostante partissero da livelli già alti. Se all’inizio degli anni 90 l’Italia era il settimo Stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali, nel 2020 è scesa al tredicesimo posto, sotto a Paesi come Francia, Irlanda, Svezia e Spagna, che negli anni 90 avevano salari più bassi di noi. L’aggiornamento recente dei dati Eurostat mostra poi come nel 2020 il valore complessivo degli stipendi italiani sia tornato sui livelli del 2016. Lo scorso anno infatti il suo valore complessivo è diminuito di 39,2 miliardi di euro, una flessione del 7,5% rispetto al 2019. Il monte stipendi è sceso da 525,7 miliardi a 486,4. Nello stesso periodo in Francia sono stati persi 32 miliardi (da 930 a 898 miliardi) con un declino del 3,4% mentre in Germania la flessione è di soli 13 miliardi su oltre 1.500. Nell’intera Unione europea il calo è stato dell’1,9%. Per altro il dato di partenza del 2016 era già fortemente segnato dalla crisi precedente, quella del 2009. Rispetto ad essa l’Italia non aveva ancora recuperato per intero neanche il monte ore lavorato, mentre una parte molto significativa di questo monte ore si era trasformata in precaria.

Naturalmente i monte salari complessivi sono legati ai tassi occupazionali che sono storicamente molto diversi nell’area Ue e tali sono rimasti. Peraltro nel 2020 il mercato del lavoro nella Ue è stato fortemente colpito dalla pandemia: il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 è calato a 72,4%, giù di 0,7 punti percentuali rispetto al 2019. Secondo i dati Eurostat l’Italia è il Paese con il tasso di occupazione più basso (62,6%) dopo la Grecia (61%), mentre il più elevato si è registrato in Svezia (80,8%).

Ma oltre ai tassi occupazionali ci sono i costi del lavoro medi, i carichi fiscali e i tempi di impiego medi, molto differenziati in Europa, di cui non tratterò qui per brevità, ma che sono decisivi per definire il salario reale.

La lettura che propongo è che in generale c’è una pressione contro i salari a perdere in rapporto al saggio di profitto e che essa avviene in forme diverse ma che si sommano. In Germania si sta sotto i livelli che sarebbero motivati dalla produttività. In Italia la svalorizzazione dei salari, e del lavoro, arriva da molteplici fattori che vanno dalla compressione tour court delle paghe, alla precarizzazione, alle nuove generazioni che prendono meno delle vecchie, alla riduzione del lavoro pubblico, alla perdita di segmenti nella cosiddetta catena del valore globale. In ossequio alle teorie degli anni 80 poi dilagate per cui la riduzione del costo del lavoro e la flessibilità avrebbero favorito occupazione e competitività, teorie sono pienamente falsificate. Ma che purtroppo non sono mai state abbandonate. Basti pensare che, in base a quanto contenuto nel Documento di economia e finanza, si calcola che 56 miliardi su 108 di aiuti di Stato distribuiti nell’anno del lockdown siano andati alle imprese: ciò non ha certo favorito i salari. Cioè, in pratica, le paghe scendono sia con l’austerity che con il Pnrr.

La verità è che fare la battaglia per un vero salario minimo europeo che abbini armonizzazione e dignità significa ripensare alle fondamenta il dogma per cui sarebbe stata l’integrazione, e la libertà, di mercato a determinarlo. Questa tesi è falsificata dalla realtà ma ciò non basta a modificare l’ideologismo fondativo di Maastricht.

Adesso, una proposta sul salario minimo della Commissione europea c’è, ma è indicativa e debolissima. C’è una discussione aperta in Germania, Francia, Spagna. E anche in Italia. È necessario però partire dallo stato dell’arte. Al primo gennaio 2021, 21 dei 27 Stati membri Ue hanno un salario minimo nazionale; non ce l’hanno Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia.

Il punto di partenza per me è che “minimo” deve significare “dignitoso”. La quota minima di retribuzione deve essere dichiaratamente volta ad aumentare la quota di reddito che va ai salari e non accompagnare il contrario. Cioè non deve essere una politica di sussidio della ulteriore liberalizzazione dei mercati del lavoro. Cioè deve invertire il trend dominante. Non è facile e metterlo in chiaro è decisivo.

Ma come si fa? Le mie idee sono che si deve operare in una connessione stretta tra dimensioni nazionali ed europea. E tra legge e contrattazione. Che significa? Che la soglia minima indicata solitamente nel 60% del salario medio deve essere quella relativa alla media europea, almeno tendenzialmente. E che per farlo ci vuole anche un livello legislativo e contrattuale europeo. Quello legislativo sembrerebbe escluso dalle norme esistenti. Ma, dico io, se la Commissione europea ha trattato per tutti il prezzo e l’acquisto dei vaccini si può ben pensare a un tavolo europeo almeno all’inizio su imprese multinazionali e lavoratori pubblici che produca accordi sui minimi che diventano regolamenti erga omnes. Così come si può pensare a un livello contrattuale europeo da aggiungere a quelli nazionali e territoriali. Quali che siano le soluzioni concrete che si possono proporre la cosa fondamentale è che su di esse ci sia una lotta che riunifichi il mondo del lavoro che Maastricht ha frantumato.


L’articolo fa parte dello SPECIALE LEGGI DI CIVILTÀ pubblicato
su Left del 22-28 ottobre 2021

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