Premio speciale della giuria a Venezia, “Il buco” è un viaggio nelle profondità della terra. «Un film alla rovescia», lo definisce il regista che ripercorre le radici culturali e artistiche del suo cinema

«Oggi non ho una casa che io senta mia, come era quella dell’infanzia. Sul piazzale di fronte, mio padre, che lavorava in Alfa Romeo, una volta fu capace di stare due settimane a rifare la testata della sua automobile. Mia madre, figlia di contadini calabresi che mangiavano solo cipolle e verdure, con le mani sapeva fare ogni cosa. Costruiva i nostri giocattoli, cuciva finanche gli zaini della scuola». Toccare, adoperare la materia, fondersi con gli elementi della terra, immergersi in quel suo intreccio di cose e uomini, luce, buio, silenzi: il talento di Michelangelo Frammartino certamente è fiorito nella vigna d’osservazione dei suoi genitori, di quella loro maniera così speciale, seria, di far da sé, di rapportarsi giudiziosamente con la realtà, penetrandovi, ascoltando poeticamente ma concretamente che cosa ha da dirci. Ecco perché, oggi, con le sue opere lui ci restituisce una narrazione sorprendente. Distinta (finalmente) dai modelli a cui siamo abituati e che ci fanno avere, per dirla con Paolo Conte, quell’espressione un po’ così prima di andare al cinema (gran parte di quello italiano). Lo scavare di papà Francesco negli abissi del motore, la magia creativa nelle dita sapienti di mamma Maria, e giocare per ore sul pavimento di graniglia dello stabile di viale Aretusa, in quel piccolo bilocale al secondo piano dal quale Michelangelo scrutava il suo esclusivo universo: Il buco, che ha vinto il premio speciale della giuria a Venezia, viene da lì, da lontanissimo. Chissà, ha cominciato ad aprirsi proprio in una di quelle forme impresse sulle mattonelle di mescola di marmo dove il piccolo Frammartino probabilmente avrebbe voluto ficcarsi, come ha fatto quasi cinquant’anni più tardi nell’Abisso del Bifurto, a Cerchiara di Calabria, una grotta di origine carsica alle pendici del Pollino e profonda quasi 700 metri e set impensabile, ma reale, di un film all’ingiù. Contrario, rivoluzionario. Speculare alla direzione nella quale vanno tutti, come descrive quella tv accesa in paese che invia la luce ipnotica delle immagini della diretta dal cantiere del Pirellone, cattedrale simbolo del boom italiano e di un’Italia, di un mondo, le cui aspirazioni sono evidentemente inverse.
Ed è qui, a Milano, dove il regista de Le quattro volte (che precede di ben undici anni la discesa nella cosiddetta Fossa del Lupo di Cerchiara) è nato 53 anni fa – ma anche nello spazio e nel tempo del su e giù con la Calabria negli interminabili mesi di una estate che durava da giugno a ottobre, vivendo appieno gli istanti lenti della Magna Grecia senza più bagnanti, in quella estesa lingua di terra che s’affaccia sullo Jonio del mito, respirando quelle sue atmosfere rarefatte, incompiute, silenziose, spessissimo zitte (non è difficile, ahinoi, capire il perché) – che Frammartino ha ricevuto il…


L’articolo prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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