Si chiamano Multi purpose reception and identification centers e sono finanziati con soldi dell’Unione europea. Nell’isola di Samos dovrebbero fungere da nuove strutture d’accoglienza per migranti. In realtà sono molto simili a centri di detenzione a cielo aperto

Un perimetro fortificato da alte recinzioni militari con filo spinato, droni e videocamere di sorveglianza, sistemi di allarme, macchine a raggi X e metal detector. Sono solo alcune tra le misure di sicurezza applicate nel nuovo campo per richiedenti asilo di Zervou, sull’isola egea di Samos, costruito col contributo del Fondo europeo per la sicurezza interna, che ha coperto il 75% dei costi totali. Lo scorso 18 settembre i migranti ospiti nel vecchio campo di Vathy sono stati trasferiti qui, in una zona piuttosto remota, a otto chilometri dal primo centro abitato.

Grecia e Unione Europea hanno segnato così l’inizio di una nuova era di strutture sempre più simili a prigioni che a campi di accoglienza. A un anno dall’incendio di Moria – il sovrappopolato campo realizzato nell’isola di Lesbo, il più grande d’Europa, baraccopoli simbolo dell’inasprirsi delle politiche europee sull’immigrazione a partire dal 2015 – la strategia di Atene e Bruxelles è cambiata: dai “campi giungla”, senza accesso ai servizi di base, si è passati a “closed camps” dove rifugiati e richiedenti asilo saranno completamente isolati.

«Per quanto tempo ancora sarò chiamato “rifugiato”? Quando diventerò umano, una persona? Una persona che lavora, esce, viaggia, insomma fa ciò che ogni altro al mondo può fare?», è Ahmed che parla (nome di fantasia scelto dall’intervistato), interpellato da Europe must act, movimento che riunisce volontari e Ong impegnati nell’accoglienza dei rifugiati. È giunto a Zervou dall’Iraq ed è stato trasferito dopo tre anni in tenda. «Mi sento come se fossi in prigione. Mi sento solo, pigro e come se fossi in un altro mondo. Il nuovo campo è sicuramente meglio della tenda, c’è un bagno, una cucina, acqua, elettricità, frigorifero e condizionatori. Ma ora?».

Gli fa eco Djénébou (anche questo, come gli altri, un nome di fantasia) dal Mali: «Il nuovo campo e il vecchio campo, sono la stessa cosa. Qui dormiamo bene e siamo puliti, ma il cibo è cattivo. Da quando sono arrivato a Samos (tre mesi fa, nda), non ho ricevuto soldi, non ho avuto cibo buono. Ho problemi di stomaco. Sono andato all’ospedale ma il dottore mi ha dato solo del paracetamolo. Se avessi soldi potrei comprare del cibo e cucinare come voglio». Per raggiungere la città principale dell’isola, Vathy, bisogna prendere un autobus e pagare il biglietto (1,60€ a tratta), poiché il sistema di trasporto è gestito da una società privata. Ai residenti non è permesso entrare e uscire all’ora che preferiscono, tra le 20 e le 8 del mattino sono infatti vietati gli spostamenti; quote fisse limitano il numero di persone che possono lasciare il centro in un dato momento. La sensazione di…


L’articolo prosegue su Left del 5-11 novembre 2021

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