«Non sono solo testimoni di dolore, ma persone che vogliono costruirsi una nuova vita», racconta il regista di “War is over”, toccante docufilm sui campi profughi nel Kurdistan iracheno che ospitano 1,5 milioni di siriani

Un viaggio nel Kurdistan iracheno, che, con i suoi tempi interni cinematografici e la sua attenta ricerca espressiva non manca di emozionare e avvolgere lo spettatore. Parliamo di War is over, il documentario di Stefano Obino, attore, regista, scrittore, presentato nella sezione Panorama Italia di Alice nella città alla Festa del cinema di Roma.

Obino, come nasce l’idea del film?
Nel 2017 ci trovavamo nella zona che ha maggiormente subito l’impatto della guerra contro l’Isis: la provincia di Duhok, 80 km a nord di Mosul. Erano i giorni in cui il califfato islamico sembrava fosse stato sconfitto (cosa non vera nemmeno oggi). Oltre 26 campi profughi solo in quell’area, 1,5 milioni di persone arrivate da Siria e centro Iraq in forte stato di necessità, il 50 per cento delle quali sotto i 18 anni. I campi profughi sembravano dei supermercati del dolore: troupe televisive di tutto il mondo compravano per pochi dollari i racconti terribili di chi era sopravvissuto alla furia del Daesh: giovani donne yazide violentate, padri che avevano perso l’intera famiglia nelle notti dei bombardamenti siriani. La situazione era drammatica, tuttavia noi siamo rimasti colpiti dall’energia che pervadeva quei luoghi, quasi un’euforia, la spropositata voglia di una vita nuova, normale, fatta anche di piccole cose. Tutti in quei luoghi, nonostante le tragedie che si portavano dentro, erano alla ricerca di un futuro migliore e felice. Siamo stati travolti da quell’energia, che non passa nei racconti dei media occidentali, ed abbiamo deciso di focalizzare il nostro racconto sull’ostinata resilienza di queste persone.

Come si è avvicinato a quel territorio ed alla sua gente?
Siamo arrivati in quei territori grazie alla collaborazione con Aispo, una ong italiana che opera nelle zone di guerra, costruendo strutture sanitarie e occupandosi della formazione del personale sanitario locale, motivati dalla volontà di lasciare sul campo strutture e conoscenze che possano essere utili anche quando l’emergenza sarà finita. Questa collaborazione ci ha consentito di accedere a luoghi altrimenti difficili da raggiungere e di viverli alla ricerca delle sfumature di questa energia, che tanto ci aveva colpito. Si sono creati rapporti molto belli, intensi. In sostanza noi non andavamo a chiedere alle persone quale tragedia li avesse colpiti, bensì cosa avessero intenzione di fare quel giorno, o il giorno dopo. Per noi non erano solo testimoni di dolore, ma persone che si costruivano una nuova vita. E credo che questo nostro approccio li rendesse disponibili ad…


L’articolo prosegue su Left del 5-11 novembre 2021

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