In Italia ci sono strutture ospedaliere dove il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza. La legge dice che le strutture sono comunque obbligate a garantire alle donne un percorso per l’interruzione. Ma questo non avviene praticamente mai

Tra una dichiarazione e l’altra del papa, che ci ricorda ad intervalli più o meno regolari che l’aborto è un omicidio e chi lo pratica è un sicario, l’ultima Relazione al Parlamento del ministro della Salute ci fornisce una fotografia dello stato di applicazione della legge 194 nel 2019. Una fotografia sfocata, perché basata su dati chiusi, aggregati per Regione, che difficilmente permettono di comprendere una realtà caratterizzata da forti differenze non solo a livello regionale, ma anche all’interno di una stessa provincia. Basandosi su questa osservazione, Chiara Lalli e Sonia Montegiove hanno inviato alle singole Asl e alle strutture ospedaliere una richiesta di accesso civico ai dati riguardanti l’obiezione di coscienza. I risultati preliminari della loro iniziativa, illustrati al congresso nazionale dell’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, ci parlano di tante strutture ospedaliere nelle quali il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza.

Seppur inquietante, questa situazione non dovrebbe avere grandi ripercussioni sulla possibilità di interrompere una gravidanza non voluta, perché la legge 194 è molto chiara in proposito: l’articolo 9, che regola il diritto del personale sanitario a sollevare obiezione di coscienza, stabilisce infatti che tutti gli ospedali – anche quelli nei quali tutti i ginecologi siano obiettori – sono tenuti «in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti». Ciò non significa che in tutte le strutture sanitarie si debbano praticare aborti, ma la legge afferma chiaramente che tutte devono garantire alle donne il percorso Ivg. Questo non avviene praticamente mai: negli ospedali dove non si praticano aborti (secondo la relazione ministeriale sono il 36,9% del totale, compresi alcuni di quelli in cui si pratica la diagnostica prenatale), di fronte ad una richiesta di Interruzione volontaria di gravidanza tutti si girano dall’altra parte, convinti che il problema non li riguardi.

Se, fino ad oggi, i dati aggregati avevano garantito l’anonimato alle strutture che arrogantemente violano la legge, i dati aperti rendono drammaticamente visibile l’illegalità, probabilmente ignorata persino dagli assessori alla sanità e dai presidenti delle Regioni che invece sono chiamati dal già citato articolo 9 alla vigilanza sulla corretta applicazione della legge. Così, mentre con la relazione al Parlamento il ministro riferisce sullo stato di applicazione della legge, i dati aperti, disaggregati, ci fanno capire quanto, a 43 anni dalla sua approvazione, la legge 194 sia ancora largamente inapplicata o male applicata; ciò si traduce, soprattutto in alcune aree del nostro paese, in una reale difficoltà di accesso all’aborto. In un articolo pubblicato sul British Medical Journal, le autrici riportano che…

*L’autrice: Anna Pompili è medica specialista in ostetricia e ginecologia, membro della Uaar e dell’associazione Luca Coscioni


L’articolo prosegue su Left del 26 novembre 2021

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