Il carattere sociale della transizione verso la ripresa appare ancora in ombra. C’è bisogno di scelte che confermino la volontà del governo di andare verso una crescita, non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Ed equa. Che non penda cioè solo dalla parte delle imprese

È ormai chiara a tutti l’importanza della fase di passaggio alla quale stiamo andando incontro, caratterizzata dalla messa a terra del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr. La parola “transizione” ha acquistato un valore del tutto particolare e viene accompagnata ai vari settori di attività che verranno investiti dalle ingenti risorse messe a disposizione per il Paese. Non a caso si parla di una transizione ecologica, nonostante l’esito controverso della Cop26; di una transizione digitale, che implica potenti fattori di innovazione sui modelli organizzativi delle imprese e della pubblica amministrazione; di una transizione infrastrutturale, sia materiale che immateriale, che dovrebbe ridisegnare l’ossatura del sistema logistico italiano e una linea di difesa contro il dissesto idrogeologico. Tutto questo, però, andrebbe accompagnato ad una riflessione circa il carattere sociale di questa transizione, che per il momento appare ancora relativamente in ombra e che ha quindi bisogno di scelte, anche simboliche, che confermino la volontà del governo di andare verso una crescita, non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa.

Vorrei evidenziare alcune proposte che rappresentano un discrimine importante per modellare i futuri assetti economici, produttivi e sociali. Facciamo alcuni esempi: il primo è relativo alla destinazione delle risorse del Pnrr, per quanto riguarda un tema caldo come quello del fisco. Se i miliardi messi a disposizione – otto – saranno utilizzati per diminuire il costo del lavoro è un conto, se dovessero andare alla diminuzione dell’Irap, è tutto un altro. A nostro avviso va privilegiata un’azione che affronti un nodo da sempre presente in Italia, che è rappresentato dall’eccessivo scarto fra lo stipendio o il salario che il lavoratore mette nelle proprie tasche e il costo del lavoro a carico dell’impresa, che è all’incirca il doppio. Recenti indagini a livello europeo hanno messo in evidenza come, negli ultimi decenni, l’Italia sia l’unico Paese a registrare una perdita di potere d’acquisto dei salari a differenza di altri Paesi che registrano crescite importanti. Diminuire il costo del lavoro, inoltre, può significare che la manovra può andare a vantaggio delle imprese o dei lavoratori, oppure essere equamente distribuita tra di essi. Si tratta di un argomento non secondario.
Un secondo esempio è rappresentato dalla quantità significativa di risorse messe a disposizione nel Pnrr per una riforma degli ammortizzatori sociali. La linea sostenuta dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, è andata nella giusta direzione: quella di un allargamento delle tutele in senso universale verso quei settori, come il lavoro autonomo, tradizionalmente non tutelati di fronte alle crisi. È andata, inoltre, verso l’investimento in formazione che diventa centrale nelle sue tre tipologie essenziali: una formazione per le persone che il lavoro non ce l’hanno, o il lavoro lo hanno perduto, per…

*L’autore: Cesare Damiano già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare


L’articolo prosegue su Left del 26 novembre 2021

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