Piano piano abbiamo rimesso in moto la macchina. La pandemia ha dato forma e concretezza a confini da cui ci siamo, a lungo, sentiti immuni. Così, abbiamo capito che attraversare le frontiere può diventare difficile, se non impossibile. È la cifra di questo tempo: muri si alzano lungo il profilo del nostro continente, lasciando ai margini migliaia di uomini e di donne. Qualche volta, non bastano nemmeno i nostri passaporti occidentali per riuscire ad andare al di là delle recinzioni. Chiusure e aperture si sono alternate rendendo complicata la realizzazione di progetti di solidarietà internazionale. Ora che i vaccini iniziano a riportare – forse – le nostre società fuori dalla fase emergenziale, siamo pronte e pronti a partire di nuovo.
Le restrizioni cambiano di continuo e la nuova variante non promette bene. Decine di persone da tutta Italia, se sarà possibile, proveranno ad attraversare a dicembre i tornelli e i muri che separano Gaza dal resto del mondo.
Come granelli di sabbia, uno dopo l’altro, vogliamo entrare per aprire una piccola breccia nell’isolamento che colpisce la popolazione civile, le decine di migliaia di giovani nati e cresciuti in quella che, con poca difficoltà, possiamo definire come la prigione più grande del mondo. Un carcere a cielo aperto in cui si sconta la colpa di essere nati da una parte, piuttosto che dall’altra, di un muro. Una striscia di costa del Mediterraneo, lunga 40km e larga tra i 7 e i 15 km, in cui vivono circa 2 milioni di persone.
Due anni fa, l’ultima grande carovana di attiviste e attivisti italiani lasciava la Striscia di Gaza, a pochi giorni dallo scoppio in Lombardia dei primi casi di Covid-19. In questo lungo tempo, la pandemia ha rallentato e impoverito ulteriormente la fragile economia di Gaza. Ma non è bastato. A maggio, le foto e i video dei bombardamenti hanno riempito gli schermi dei telefoni di mezzo mondo, le strade distrutte hanno preso le copertine dei giornali e, per qualche tempo, si è tornati a parlare di Palestina e di Israele. Abbiamo visto l’esercito israeliano entrare armato nella moschea di Al Aqsa, la difesa delle case di Sheik Jarrah dall’esproprio, gli scontri violenti a Gerusalemme e poi in tutta la West Bank. Abbiamo visto di nuovo le bombe cadere su Gaza, abbattere in diretta infrastrutture e palazzi, come quello che ospitava le redazioni di Al Jazeera, Associated Press e altri. Abbiamo osservato sollevarsi la popolazione palestinese che vive in Israele e che ne possiede la cittadinanza. È seguita una grande operazione di repressione, centinaia di arresti e le elezioni in Israele.
L’attenzione, poi, si è spostata altrove, mentre nella Striscia sono rimaste le macerie. Nelle voragini aperte sulle principali arterie del traffico e nelle pareti dei palazzi abbattuti, è rimasto il dolore per le perdite e la consapevolezza che non c’è futuro possibile in un luogo in cui non è garantita la sicurezza del presente. È per questo che chi ottiene un visto per lavoro o per studio, esce appena può. È un fenomeno in aumento. Una delle mete dove i ragazzi si fermano con maggiore facilità è la Turchia. Chi rimane, invece, deve fare i conti con una quotidianità sempre più difficile: la disoccupazione è schizzata alle stelle e gli stipendi sono diminuiti ulteriormente; l’elettricità è centellinata e l’acqua sempre più inquinata. Già qualche anno fa, l’AICS – Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo – segnalava come la mancanza di energia elettrica costringa a frequenti sospensioni del trattamento delle acque reflue. Queste causano l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, che non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza, con circa 108 milioni di litri di acque reflue non trattate riversate nel mare ogni giorno – l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche.
L’occupazione militare, perpetrata dal susseguirsi dei governi israeliani, pervade e lede ogni aspetto della vita dei palestinesi. E questo nella Striscia di Gaza è fin troppo evidente: basti pensare all’embargo economico e alla chiusura delle frontiere, così come al controllo sulle fonti energetiche e di approvvigionamento della popolazione civile, o alla minaccia continua e reale di attacchi militari via terra, via aerea o via mare. Ogni giorno il sistema di occupazione lede il diritto dei palestinesi a vivere una vita degna e in salute, a crescere in un’infanzia di pace ed avere accesso alle cure sanitarie, a veder riconosciuta la propria cittadinanza, la propria identità, a poter godere della libertà di movimento.
Torniamo a Gaza con obiettivi e idee chiare.
È fondamentale raccontare e documentare quanto accade, specie quando i riflettori sono spenti: oggi è necessario ribaltare la narrazione mainstream, non solo riguardo ai fatti della politica e delle guerre, ma anche rispetto alla cultura dei popoli arabi e del Mediterraneo, avendo cura di ascoltare e raccontare la forza e la vita della resistenza quotidiana della popolazione civile, degli studenti e delle lavoratrici palestinesi, delle famiglie sotto l’occupazione e di quelle in diaspora in ogni angolo del mondo.
E poi è fondamentale agire, sul posto, provando a non alimentare sistemi di mero assistenzialismo e dipendenza, ma cercando, piuttosto, di mettere a disposizione degli strumenti, di costruire insieme dei mezzi e delle opportunità, attraverso cui le ragazze e i ragazzi che crescono a Gaza possano coltivare una quotidianità alternativa alla sofferenza che, spesso, li circonda. È un discorso che attiene alla possibilità, per questi giovani, di sviluppare la propria personalità, di sfogare le tensioni e i traumi accumulati, di trovare passioni che diano prospettiva di futuro. Significa cimentarsi insieme nelle arti e nelle discipline, condividere saperi, apprendere reciprocamente e ascoltare. Vuol dire, anche, tessere legami, conoscere storie e misurare diversità e similitudini delle nostre culture, unite dal mare e separate dal tempo moderno.
Il Gaza Freestyle – così si chiama il progetto che organizza la carovana – va avanti da anni. Grazie allo stretto rapporto con il Centro Italiano di Scambio Culturale VIK, dedicato a Vittorio Arrigoni, quest’anno prenderemo parte ad un Forum femminile e femminista, che stiamo organizzando in collaborazione con associazioni di donne palestinesi, che operano sul territorio. Per questo, la composizione del gruppo in partenza sarà in grande maggioranza femminile. Abbiamo scelto di investire sulla relazione sedimentata negli anni con associazioni e collettivi di donne di Gaza, con cui in passato abbiamo condiviso progetti e laboratori. La libertà di una terra non può prescindere in nessun modo dalla libertà delle donne, che sono elemento fondamentale della resistenza e resilienza palestinese, e che vivono sulla propria pelle l’accrescimento del potere di forze fondamentaliste religiose come Hamas. Diamo vita e spazio a una rete che supera i confini dell’occupazione, apre ambiti di discussione e di confronto e tesse relazioni. La nostra speranza è quella di riuscire, nel tempo, a contribuire alla costruzione di una Casa delle Donne nella Striscia di Gaza.
Inaugureremo, poi, il Green Hopes Gaza: un progetto dell’ONG A.C.S., che nel nord della Striscia, a poche centinaia di metri dal confine israeliano, ha riqualificato una grande area di 12.500 mq, in una delle zone solitamente più colpite dai bombardamenti. Sono stati realizzati uno degli skatepark più grandi del Medio Oriente, campi da calcio, il primo tendone da circo della Striscia, serre per la coltivazione e la didattica, un centro polifunzionale per le associazioni locali e tanto altro. Sono stati piantati mille alberi. E tutto questo sarà a completa disposizione della comunità territoriale, delle scuole di circensi, delle squadre, delle crew di skate. Rigenerazione sociale e ambientale sostenuta dalla cooperazione internazionale.
Un piccolo esempio positivo di costruzione di strumenti per la comunità. L’obiettivo è realizzare, insieme, opportunità e mezzi che possano incidere sulla quotidianità della popolazione civile palestinese, lasciando un segno permanente della solidarietà internazionale.
Torniamo in Palestina consapevoli della complessità sempre maggiore del contesto in cui operiamo.
La speranza di cambiamento, di giustizia e di libertà per il popolo palestinese e per gli oppressi del mondo, continueremo a cercarla negli occhi dei e delle giovani di Gaza.
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Per seguire le attività del progetto su Facebook, Instagram e Twitter segui Gaza Freestyle.
Per sostenere il progetto si può donare al crowdfunding su Produzioni dal Basso: https://www.produzionidalbasso.com/project/women-4-palestine-un-forum-delle-donne-nella-striscia-di-gaza/
Le foto pubblicate a corredo di questo articolo sono di André Lucat