La crisi umanitaria al confine tra Polonia e Bielorussia è ancora irrisolta. Ma come spesso accade in questi casi i riflettori mediatici si sono spenti in fretta. Così succede che Varsavia blinda ancora di più la frontiera e Bruxelles non vuole più prendere decisioni

A dicembre si concentrano le date in cui l’Onu riafferma l’universalità dei diritti. Fare un bilancio in una condizione pandemica nuova che si va a sommare ad emergenze democratiche, alimentari, ambientali di ogni tipo, non è semplice e non induce all’ottimismo. Il 10 dicembre è riconosciuto come “Giornata internazionale dei diritti umani”, un termine esteso quanto disatteso. La data fu scelta da parte dell’Assemblea generale Onu come anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale stipulata nel 1948. Nel 1950 tutti gli Stati furono invitati a celebrarla.

Per sfuggire dalla retorica ipocrita meglio partire da un luogo preciso, finito di recente al centro dell’attenzione mediatica: il confine fra Polonia e Bielorussia, in cui i richiedenti asilo vengono cinicamente utilizzati da due regimi diversamente reazionari. Ad allarmare le cancellerie occidentali, oltre che quella polacca, sono meno di 5mila persone, in gran parte provenienti da Medio Oriente e Afghanistan, nuclei familiari che si trovano prevalentemente ancora al confine e che rischiano di morire assiderati. In pochi riescono ad entrare in Polonia. A proposito di diritti il primo dicembre, tanto per lanciare un segnale all’Unione europea, il presidente polacco Andrzej Duda ha firmato un disegno di legge con cui si vieta l’accesso all’area di confine con la Bielorussia a giornalisti e operatori di Ong. Un divieto “discrezionale”. Sarà la Guardia di frontiera a decidere se accordare o meno l’ingresso e a chi. Già alcuni media hanno cercato un’interlocuzione con le autorità ricevendo in cambio un indirizzo mail da cui nessuno risponde. Le motivazioni addotte dal ministro dell’Interno Mariusz Kaminski sono quelle che da decenni ogni governo utilizza per misure liberticide, “ragioni di sicurezza”. Lo stato di emergenza, dichiarato il 2 settembre, è stato superato dal provvedimento che ora comprende 183 villaggi di confine per un’area di 3 km di profondità.

Quelli che il governo chiama “tentativi di accesso irregolare” sono circa 150 al giorno: con questo risibile pretesto ci si chiude al mondo. Oltre lo splendido esempio delle “lanterne verdi” (accese fuori dalle case pronte a ospitare i profughi) è significativa la posizione del Garante polacco per i diritti umani che ha contestato la legge perché limita le libertà a tempo indeterminato. Le persone in fuga – con l’irrigidirsi delle temperature e l’arrivo della neve – vanno diminuendo ma sono centinaia gli agenti di frontiera che continuano a presidiare la foresta gelata al confine, anche per bloccare le azioni solidali degli attivisti che disobbediscono al governo o dei passeur che cercano di lucrare sul dramma dei profughi. La commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johanson, intervenendo a Bruxelles su «misure straordinarie e temporanee per aiutare Polonia, Lituania e Lettonia a gestire le richieste d’asilo», ha definito la fase al confine come di…


L’intervista prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

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