Un appello alla politica a riappropriarsi dei propri compiti e ad assumersi le proprie responsabilità seguendo la spinta partecipativa a cui si ispira la nostra Carta

Aver affidato a suo tempo a Draghi il compito di formare l’attuale governo, che si sia favorevoli o contrari, rispondeva ad una logica: l’emergenza. Non si poteva, si diceva, in piena pandemia, con il Pnrr da redigere, con il rischio di una grave crisi economica, andare alle elezioni, e gettare il Paese nel vuoto.
E quindi si scelse Draghi, uomo fidato, esperto, autorevole, stimato nei circoli che contano, in Europa e nelle sue istituzioni, “affidabile”, di sicura statura internazionale.
Già su questo bisognerebbe con onestà riconoscere che, in assoluto, affidare ad un “esperto” le sorti del Paese, di per sé non dice molto, di certo non dice tutto delle implicazioni conseguenti, perché anche la scelta dell’esperto in questione comporta scegliere una precisa direzione di marcia.

L’Italia è piena di bravi ingegneri, medici, sociologi, economisti, cui però nessuno si sogna di tramutarli automaticamente in ministri dei Lavori pubblici, o della Sanità o delle Finanze, senza sapere a quale progetto, a quale idea di Paese, mettono a servizio le loro competenze, perché un ingegnere non è uguale ad un altro. Sarebbe facile, così non fosse, formare un “governo dei migliori”, sempre.
Perciò la scelta di Draghi ha risposto ad una precisa direzione di marcia cui tutti i partiti dell’attuale governo, hanno, sia pure con sottili, e talvolta ingiustificabili, distinguo, deciso di aderire. Tuttavia, al di là di queste premesse doverose, quella scelta, apparentemente, si giustificava con la temuta “emergenza”, e però aveva in sé, come fortemente evidente in questi giorni, un tarlo dannoso per la nostra Repubblica: l’idea cioè che l’emergenza giustifichi qualunque cosa.

Parlare oggi di Draghi presidente della Repubblica, o anche di confermarlo alla guida dell’esecutivo, quale scelta più utile (conveniente) per il Paese (i partiti) ci dice invece alcune cose fondamentali sottaciute, a prescindere della sua personale figura.
Se da un lato è vero che la nomina di Draghi a PdC o PdR è perfettamente legittima sul piano puramente formale della nostra Carta fondamentale (che, può piacere o meno, è tuttora vigente) tuttavia essa è pervasa, in tutto il suo corpo, da una forte spinta partecipativa.

Non è un caso che la nostra sia una Repubblica parlamentare, con una tanto forte caratterizzazione in tal senso da prevedere addirittura due Camere sostanzialmente identiche (quindi con una forte valorizzazione del confronto), come non è un caso che si affidi ai partiti la libera organizzazione del consenso, «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49).
Proporre come ineludibile la figura di Draghi (e per altro verso ugualmente insistere sulla riconferma del pur ottimo presidente Mattarella, che però fortunatamente pare non voler partecipare a tale insensatezza) significa alterare lo spirito della Costituzione, andare oltre, forzarne il senso, modificarne di fatto il sentimento, proprio in quanto non prevede alcun “libero convincimento” popolare.
Nessun programma viene proposto alla discussione e approvazione popolare, ma si discute di Draghi a prescindere, pur non avendo egli alcuna “legittimazione popolare” (a meno di dare valenza “giuridica” ai sondaggi).

E ciò è una novità assoluta, perché pur avendo avuto altri presidenti del Consiglio non passati dal responso elettorale, tuttavia quelli erano comunque espressione di forze politiche con un loro programma e consistenza (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), o rappresentavano una effettiva “eccezione” non ripetibile (Ciampi) o ancora sono comunque dopo passati (e già questa era una forzatura) per le urne e bastonati (Monti).
Mai nessuno che fosse riconfermato a prescindere a “furor di partito” anziché di popolo.
Così facendo i partiti, tutti, da un lato rinunciano al ruolo loro affidato dalla Costituzione di organizzatori della volontà popolare, e quindi di rappresentanti dei diversi interessi (relegando il Parlamento ad una funzione puramente notarile di ratifica delle decisioni dell’esecutivo e del PdC in primis), e dall’altro denunciano indecorosamente di non trovare al proprio interno personalità altrettanto autorevoli cui affidare il Paese.

Il dibattito nei partiti sul ruolo futuro di Draghi (per taluni da “tutelare”) pare prescindere quindi dal proporre una propria visione da discutere nel Paese, e dalle cui indicazioni trarne le conseguenze, ma da risolvere entro le proprie segreterie: il contrario della spinta partecipativa cui la Costituzione si ispira.
Tutto ciò trasmette, inoltre, il senso di una condizione di “emergenza continua” per il futuro, tale da giustificare il perdurare della figura di Draghi a garante della stabilità ben oltre l’attuale governo, sia in caso di presidenza della Repubblica (sette anni), accompagnato da un capo dell’esecutivo a lui “gradito”, sia in caso di conferma quale presidente del Consiglio.

Un’idea di emergenza continua cioè che quindi, come per la scelta fatta per l’attuale formula di governo, non faccia passare le scelte da compiere attraverso la volontà popolare, che non significa invocare puramente il voto, ma invocare un dibattito sul futuro del Paese, una discussione, confronto tra idee, progetti, visioni.
Insomma una resa della politica, quella nobile, al demiurgo di turno, chiunque esso sia, utile solo a garantire e rassicurare i mercati e la finanza.
E tutto ciò è possibile semplicemente e amaramente perché in fondo, specie a sinistra, ci si è avviati ad una accettazione sostanziale del sistema attuale, non ipotizzarne un cambiamento, e accettare la supremazia dei mercati e della finanza.

Altro che presidenzialismo di fatto, cui qualcuno ha accennato con una certa dose di sincerità (ingenua?), ma una vera e propria riforma di fatto della Costituzione.
Non si tratta quindi di un vacuo appello populista alle virtù salvifiche del voto, ma un appello alla politica a riappropriarsi dei propri compiti, assumersi le proprie responsabilità, non pensare alla pura riproposizione di sé stessi, e poi chiedersi ipocritamente i motivi della disaffezione e dell’astensionismo ormai di massa. È tempo di finirla con questa destrutturazione di fatto della Costituzione, e riproporre una doverosa se pur minima difesa del sudore e del sangue di chi ha costruito questa Costituzione e l’ha difesa.
Per tutto questo bisogna dire no a Draghi, in qualunque ruolo (e no, se pure con un sentito ringraziamento, al presidente Mattarella).
I partiti si assumano le proprie responsabilità e abbiano il minimo orgoglio di lavorare per giustificare la propria esistenza come prevede la nostra cara Costituzione.