Il film poetico e sconvolgente di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini racconta la vita della transessuale Lucy, vittima di un prete pedofilo e sopravvissuta a Dachau. «Il lascito più grande è che con lei siamo diventati amici», dicono i due autori

C’è un soffio di vita soltanto è il film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, presentato in anteprima al Festival di Torino. Racconta la vita di Luciano Salani ovvero Lucy, la transessuale più anziana d’Italia, tra i pochi sopravvissuti al campo di concentramento di Dachau. In sala a Roma, Milano, Perugia 10-11-12 gennaio; visibile il 27-28-29 gennaio presso la Cineteca di Bologna, dove, in occasione del Giorno della memoria, saranno presenti gli autori e la protagonista; sempre dal 27 gennaio sarà possibile vederlo su Sky. Film realizzato durante la pandemia, low budget, poetico e scioccante al tempo stesso.

Come è nata l’idea di questo lavoro?

Daniele: È nata per caso, ho visto un’intervista di Lucy su Facebook, che qualcuno aveva postato. Un piccolo video in cui lei parlava del campo di concentramento. L’ho girata a Matteo, lui l’ha vista e ha detto “che bomba di storia!”, abbiamo incominciato a cercare su internet, pensando che già fosse stato realizzato qualcosa su una persona così incredibile, in realtà c’era poco, quasi niente, quindi tramite il Cassero, associazione Lgbt di Bologna, ci siamo messi in contatto con Ambra, che è una ragazza che le è vicina e fa parte di quegli amici che la aiutano a fare un po’ di cose…

Matteo: Una specie di nipote acquisita…

Daniele: Siamo andati un pomeriggio senza telecamere, senza nulla, a trovarla. Abbiamo preso un caffè con lei, abbiamo parlato e le abbiamo proposto un’intervista. Siamo tornati con le telecamere, in 3 giorni abbiamo fatto un’intervista fiume, in cui lei ci ha raccontato la sua vita incredibile e da lì abbiamo capito che volevamo fare altro, non un documentario classico, ma un film che la seguisse da vicino, perché dietro di lei non c’era solo la tragedia del campo di concentramento, ma uno spaccato di storia del Novecento. Poi è arrivata la pandemia, siamo tornati più volte per le riprese, quando è stato possibile, e alla fine, a settembre, siamo andati con lei a Dachau… Successivamente abbiamo ricomposto e dato forma al materiale – i tasselli della sua vita – al montaggio. Non è stato semplice, immagina la nostra apprensione. La sua età, la nostra paura del coronavirus, scherzando ci dicevamo: non l’hanno ammazzata i nazisti, non possiamo essere noi a ucciderla. Ed eravamo molto, molto attenti e cauti…

Matteo: Anche per questo non abbiamo preso l’aereo da Bologna per andare a Monaco, ma due auto.

Daniele: Ci siamo fatti i tamponi tutti più volte, abbiamo cercato di fare il possibile per farla viaggiare in sicurezza

Matteo: La fortuna è che essendo una troupe di 3 persone è stato più facile rispetto a produzioni più pesanti. In fondo questo è un film, tra le altre cose, sulla terza età e la fragilità che ad essa si accompagna, sulla solitudine della terza età, pur essendo lei circondata da tante persone…

Il film è il ritratto di Luciano Salani ovvero Lucy, ma anche di tante vite in un solo corpo, appesantito dagli anni e dai ricordi: è la vita di un ragazzino abusato da un prete pedofilo in un confessionale; di un giovane omosessuale che rifiuta la vita militare; di un furiere che fugge dall’esercito; di un disertore che a Bologna fa le marchette ai tedeschi; di un condannato a morte, graziato da Kesserling, e punito con i lavori forzati a Dachau. Dove devo cambiare l’articolo maschile in femminile?

Matteo: Guarda, noi lo cambiamo sempre l’articolo, perché lei da quando aveva due, tre anni si è sempre sentita una bambina e per noi è così. L’aspetto che ci ha dato la chiave di interpretazione di questa sua vita è quando dice con una semplicità disarmante: «Perché una donna non si può chiamare Luciano? Ti fanno un buco e allora diventi una donna? Io ero già una donna da prima, e il nome non mi andava di cambiarlo, me l’hanno dato i miei genitori, è sacro e non lo cambio…». Dietro un’affermazione che sembra così semplice c’è tutta la complessità del dibattito che stiamo vivendo ora, a cui lei era già arrivata 50/60 anni fa. Tutto quello che unisce queste vite, che dicevi tu, è la capacità di affermazione della sua identità. È talmente forte la sua combattività e voglia di esprimere la sua identità, a prescindere da quello che il mondo esterno pensava di lei o di come la percepiva – considera che è sempre stata relegata come una diversa –  che è sempre andata per la sua strada con tutte le avventure e disavventure a cui è andata incontro e che ha subito. La sua identità è quella, chiara, netta: lei è una donna ed ha vissuto in funzione di quello.

Daniele: il tema è alla ribalta, basti pensare che il Del Zan è caduto proprio su questo, sull’identità di genere e questo lavoro può contribuire a capire cosa vuol dire proporre un’identità diversa dal binarismo, maschio/femmina. Anche perché noi oggi viviamo in una società che ha ben chiaro che cosa sia l’identità di genere, Lucy è vissuta in un’epoca in cui la parola transessuale non esisteva neanche. Non è cresciuta con dei modelli di riferimento, ma ha provato su se stessa questa esperienza…

Matteo: … lei ci ha portato dentro una riflessione sulle molte espressioni dell’identità di genere e anche sul termine transessuale, perché non è detto che una persona che si senta donna, voglia per forza fare un intervento per una diversa attribuzione di sesso. Molte persone si sentono donne, non vogliono fare l’intervento e comunque la loro identità, quella che sentono, è femminile. Lucy ha superato da tempo questo concetto che ad una identità debbano corrispondere delle caratteristiche biologiche. L’identità è una cosa che va al di là dei genitali, dell’attribuzione di sesso e dell’orientamento. È un argomento scottante, ci rendiamo conto, ma, anche se a qualcuno non piacerà, questo è il tipo di discorso politico oltre che poetico che portiamo avanti. Noi però abbiamo fatto il film con un altro obiettivo che è quello di raccontare una vita speciale sì, ma una vita singola: al di là del gender, a noi interessava l’umanità, l’esistenza, il senso profondo dell’identità non specificatamente delle persone transessuali, ma di tutti noi…. In realtà lei pensava che nei nostri tempi si sarebbe finalmente arrivati ad una assimilazione culturale della diversità, che invece non c’è stata…

Lei sente che c’è una tolleranza, non un’integrazione?

Matteo: Esatto, ma non vuole essere tollerata da nessuno. Lei dice la mia identità è così e voglio essere rispettata per quello che sono. C’è sempre un noi ed un voi, anche se  ne ha viste talmente tante, che sta da un’altra parte, oltre…

Probabilmente Bologna è un luogo più aperto di altri rispetto a questi temi.

Daniele: Sì, ce ne siamo accorti in questo periodo. Bologna è una città molto aperta, te ne accorgi andando in giro, partecipando alle manifestazioni culturali. Sicuramente Bologna e Torino, dove Lucy ha vissuto facendo la tappezziera, rappresentano anni difficili, ma anche molto belli. Tra l’altro a Torino ha vissuto anche l’esperienza della maternità con Patrizia, una ragazza che è morta prematuramente, l’ha presa con sé quando era bambina. Insomma un’altra delle vite di Lucy ed un’altra proposta con cui confrontarsi: un’idea diversa di famiglia come luogo dell’amore, della comprensione, la condivisione, la cura quello che lei sintetizza in quella frase: «Io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me».

Due momenti mi hanno colpito: il disgusto –  anzi lo schifo – nei confronti del prete che la abusa, con la complicità della famiglia, e l’affermazione perentoria di fronte ai cancelli di Dachau «dio non c’è, dio siamo noi, è la nostra volontà che comanda il mondo»… Come vi siete orientati rispetto a questi passaggi?

Matteo: forse il primo riesce ad essere più terribile del racconto di Dachau.

Paradossalmente l’ho percepito come una pugnalata

Matteo: perché non siamo abituati a sentire queste cose pronunciate con una tale evidenza. Noi abbiamo la triste abitudine di vedere i campi di concentramento nei video, nei documentari, nei racconti dei sopravvissuti, mentre degli abusi sui bambini, anche all’interno di una vita irregolare, se ne sta iniziando solo ora a parlare. La comunità cattolica sta cercando di venirne a capo…

Tardivamente…

Daniele: molto tardivamente

Matteo: Però stanno cercando di fare un discorso che contempla il problema. Chi rappresenta la religione, Dio, ha un potere ancora più grosso dello Stato; quando sei una istituzione religiosa le persone, i bambini, vengono a te, perché si fidano, cercano un conforto, una speranza e allora la violenza è ancora più lesiva e devastante nei confronti della persona; i bambini abusati, come racconta Lucy, sentono di essere loro dalla parte del torto, inadeguati, sbagliati. Spesso la Chiesa ha messo sotto il tappeto gli abusi ai danni delle vittime. Noi non volevamo che si respirasse in questa scena morbosità, pornografia morale, ma volevamo che emergesse cosa è successo nella testa di Lucy ed il suo vissuto è strettamente legato alla scena finale, in cui  ribadisce che siamo noi che ci autodeterminiamo senza alcun dio che decide per noi. Ogni azione lesiva e violenta è prodotta dall’uomo, non c’è nessun dio a manovrarne la decisione…

Daniele: Lucy, l’episodio dell’abuso ce l’ha raccontato una sola volta. Poi ci ha chiesto di spegnere la telecamera. E questo la dice lunga sul “terrore” che trapela dalle sue parole… è spaventata quando lo racconta, vedi una fragilità che non vedi altrove. Noi eravamo molto incerti se inserirlo o meno, ma l’abbiamo fatto nel rispetto del suo dolore

Lì, si ha la sensazione che la sua vita sia stata spezzata irrimediabilmente

Daniele: sì, c’è un prima e un dopo… e, secondo me, una delle frasi più terribili che dice è: «Da lì ho cominciato a fare la puttana…». Il mondo ti fa sentire una persona diversa e tu pensi che il tuo riscatto, il tuo posto nel mondo, sia venderti per qualche spicciolo: è una delle immagini più drammatiche del film… Dachau è stata l’ultima scena che abbiamo girato e, ci sembrava necessario, seguire l’ordine delle riprese. Quando maneggi un materiale umano così importante, rispetto a certi passaggi, capisci di dover fare un passo indietro come regia; abbiamo inserito delle cose che magari tecnicamente non ci facevano impazzire, ma che erano talmente dense di significato, talmente importanti per la narrazione di Lucy che il nostro punto di vista e, se vuoi, le nostre “pippe mentali” dovevano essere messe da parte. Tanto del lavoro che abbiamo fatto è stato quello di renderci “invisibili”. Avevamo tra le mani qualcosa di molto importante: lei che si raccontava e si raccontava attraverso altre persone che costellano la sua vita. Forse il lascito più grande è che con lei siamo diventati amici. Qualcosa che non avevamo mai sperimentato con il film di finzione, un senso di responsabilità, che non è fare in modo che il tuo film piaccia o arrivi al pubblico, ma avere ed esprimere un rispetto, una delicatezza, una attenzione nei confronti della vita di una persona….

Nella foto: frame da “C’è un soffio di vita soltanto”