Le politiche di austerity hanno fatto solo danni. Il Next generation Eu diventi strutturale, dice il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, che per combattere il precariato propone un patto sul modello spagnolo e politiche keynesiane «di cui non c’è traccia nella manovra»

La morte di un ragazzo di 18 anni è una tragedia: ora dobbiamo solo stare in rispettoso silenzio al fianco dei suoi genitori. C’è, però, tanto dolore e tanta rabbia. Ci affidiamo al lavoro della magistratura per far luce sull’accaduto», dice il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri. È indubbiamente una immensa tragedia e inaccettabile che Lorenzo Parelli abbia perso la vita in un luogo di lavoro durante un tirocinio scolastico. I ragazzi a quell’età dovrebbero poter studiare e basta, non essere “impiegati”come mano d’opera per giunta in contesti che li mettono a rischio. «Penso che l’alternanza scuola lavoro debba essere ripensata, privilegiando per i giovani il momento dello studio, affinché non succeda mai più nulla del genere», approfondisce Bombardieri. «Per noi, il rispetto della vita e della sicurezza sul lavoro viene prima di ogni altra cosa e ciò vale a maggior ragione per chi comincia ad avvicinarsi a questa realtà».
Sappiamo anche che, purtroppo, in Italia sono i giovani a pagare il prezzo più alto della disoccupazione della precarietà. Anche chi ha in tasca una laurea si trova a doversi arrangiare lavorando senza alcuna tutela per le grandi piattaforme. Ora una nuova direttiva europea considera i lavoratori delle piattaforme come lavoratori dipendenti. Bombardieri, potremmo fare altrettanto in Italia?
Io dico proprio di sì. I lavoratori delle piattaforme devono essere riconosciuti come lavoratori dipendenti. La direttiva Ue che lo stabilisce sta per essere recepita dal Parlamento europeo. L’Italia potrebbe recepire in anticipo quei principi e valori che, per altro, sono gli stessi espressi da una sentenza che in Italia ha riconosciuto i riders come lavoratori dipendenti. Questa è la proposta che abbiamo fatto al ministro del Lavoro Andrea Orlando la settimana scorsa nel tavolo di confronto che si è aperto su questo e altri temi, dopo lo sciopero indetto da Cgil e Uil lo scorso 16 dicembre.
La mobilitazione ha dato voce e rappresentanza politica al malessere sociale sempre più diffuso in Italia dopo due anni di pandemia. Lo stesso ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha comunicato che in Italia un lavoratore su dieci è in povertà nonostante lavori. Come si affronta questa grave situazione?
Intanto mettendo il tema del lavoro al centro della ricostruzione di questo Paese. La pandemia ha acuito la crisi. Ma la tendenza è stata fin qui raccontare la storia che in questo Paese tutto sta andando bene. Si è molto sottolineato il più 6% del Pil senza specificare che è un rimbalzo, per cui la pallina tornerà indietro. Si sono sottostimati il costo dell’inflazione e l’aumento del costo delle materie prime.
Come si risponde a questa ottimistica e distorta narrazione?
In primis andando a vedere quale è la condizione del lavoro, quale è la realtà dei lavoratori e delle lavoratrici in questo Paese. Partiamo dai numeri: negli ultimi tre anni (e dunque non nell’ultimo anno della pandemia) sono stati avviati 4 milioni di contratti di lavoro a tempo indeterminato, a fronte di 20 milioni di rapporti attivati su forme di lavoro a tempo determinato, a chiamata, in somministrazione e quant’altro. Questo quadro dovrebbe far riflettere tutti. Il futuro dell’Italia sarà determinato dalle scelte sulle pensioni, da quelle sul welfare. Lo ripetiamo con forza: non è una cosa di cui sentirsi in colpa rivendicare, come noi facciamo, uno stato sociale adeguato per chi rimane indietro.
Per creare lavoro stabile bisogna superare i contratti precari e a tempo determinato come sta facendo il governo spagnolo?
Noi abbiamo proposto un patto che va proprio in quella direzione. Da mesi in Italia ci viene proposto un patto senza chiarirne i contenuti. In una famosa commedia di Eduardo, Natale in casa Cupiello, Lucariello chiedeva: “Ti piace o’ presepe?”, non occupandosi minimamente di ciò che stavano vivendo la moglie, il figlio, la sorella, non interessandosi delle condizioni in cui si trovava la famiglia. L’unico suo problema era capire se i pastorelli fossero al posto giusto e se a tutti piaceva il presepe. Per mesi abbiamo assistito a questa commedia napoletana: “Ti piace o’ presepe?”. E non si capisce su che cosa il patto si sarebbe dovuto fare. Noi ne abbiamo proposto uno concreto sul modello di quello che è stato sottoscritto in Spagna tra organizzazioni datoriali, organizzazioni sindacali e governo, nel quale si dice che sono eliminati i contratti a tempo determinato. Non ridotti, ma eliminati. I contratti a tempo determinato possono essere utilizzati solo nel caso di lavoratori che devono essere sostituiti per motivi personali o di salute, maternità ecc. o in casi particolari di picchi produttivi.
Aiuterebbe anche i più giovani?
Certamente. Se non diamo stabilità ai ragazzi che devono entrare nel mondo del lavoro, sarà complicato costruire un discorso sul futuro. Immagino sarà capitato anche a voi di Left, se si intervista un giovane chiedendogli come sarà la sua pensione, nel 99% dei casi risponde: “Non avrò una pensione”. Questo significa che si è creata una condizione per cui i ragazzi che vanno a lavorare pensano e sanno che non ci sarà una pensione. Anche grazie a questo pensiero e a questo clima accettano il lavoro a nero. Dobbiamo cambiare questa realtà.

Sul salario minimo l’Europa si sta muovendo. Quale è la vostra posizione?

Come per quel che riguarda il lavoro povero, anche per il salario minimo mi pare che la politica scappi dalle proprie responsabilità. Con umiltà mi permetto di dire che molti politici parlano di salario minimo senza aver letto la direttiva europea. Come sindacato europeo abbiamo contribuito a quella direttiva che ha l’obiettivo di aumentare i livelli di contrattazione nazionale. È costruita in quel modo perché nella Ue ci sono Paesi che hanno forti forme di contratto nazionale e ci sono Paesi dove c’è il salario minimo. In questi ultimi, come ad esempio la Polonia, un operaio specializzato metalmeccanico guadagna 600 euro al mese. È una delle ragioni per cui le aziende delocalizzano. Anche alla luce di questo contesto dovremmo parlare in Italia di salario minimo che coincida con il minimo contrattuale. Perché il contratto tutela di più i lavoratori, perché prevede le ferie, il mantenimento del posto di lavoro, la copertura previdenziale e una serie di diritti che il salario minimo non dà.

Bisogna contrastare anche i contratti pirata?

Quando stipuliamo un contratto c’è un soggetto, ci sono dei principi, dei diritti “medi” a cui fare riferimento, sotto ai quali si dice “questo non è un contratto”. Se c’è un contratto che non riconosce una certa retribuzione, un congruo numero di ferie ecc. si può dire che quel contratto non è un contratto? Su questo la politica non decide, non riesce ad esprimere con chiara esattezza quali sono i valori di riferimento.

Prima abbiamo accennato al tema delle delocalizzazioni selvagge. Anche su questo non si vede sufficientemente luce da parte del governo Draghi?

Su questo non solo non si vede la luce, ma direi è buio pesto. Per una evidente scelta politica: prevale la vecchia logica per cui non si deve dare fastidio al mercato e alle aziende. Anche sulle delocalizzazioni abbiamo avanzato una proposta molto chiara: alcuni principi e comportamenti sono stati fissati da un accordo Ocse firmato da tutti. Abbiamo chiesto che venga applicato in Italia.

Cosa c’è scritto?

C’è scritto che se vai via, devi avvisare per tempo il territorio, devi dare il tempo alle persone, devi investire, devi trovare la possibilità di reimpiegare i lavoratori, devi trovare delle soluzioni. Invece quando si tratta di cartelli potenti riscontriamo sempre qualche dubbio ad intervenire.

È giusto che delle aziende che prendono finanziamenti in Italia delocalizzino, pur essendo in attivo?

Non è accettabile che anche in Italia ci siano multinazionali che spostano le proprie produzioni in altri Paesi avendo un attivo di bilancio, solo perché altrove pagano meno tasse. Certo, è una questione che dovrebbe essere affrontata a livello europeo. Ma intanto anche da noi qualcosa si può fare. Si può dire che chi prende risorse in Italia le deve rimettere. Ciò che è previsto finora non basta, bisogna rafforzare questa norma, far sì che chi oggi in Italia produce, raggiunge utili, paghi le tasse qui e non in un paradiso fiscale. Io ricordo che grandi multinazionali come Amazon – tanto per citarne una che tutti conosciamo – ha prodotto nell’anno della pandemia 42 miliardi di utile in Italia e in Europa e non ha pagato un euro di tasse. Su questo mi pare ci sia troppa timidezza. Il ministro Orlando ci ha provato ma quel decreto è stato annacquato e nascosto nei corridoi, a proposito di mancanza di luce.

Anche durante la pandemia non c’è stato un adeguato sostegno al lavoro, mentre ingenti somme sono state date alle imprese. Manca una complessiva politica industriale?

Lo abbiamo dimostrato e denunciato in più occasioni. In questo Paese manca una seria politica industriale. Per esempio sull’automotive. Basta fare un raffronto con altri Paesi europei, guardiamo come la Francia è entrata in Stellantis. Guardiamo anche come altri Stati siedono in alcune aziende dell’energia. Noi non abbiamo ancora chiarito quali siano i nostri asset industriali strategici e tanto meno abbiamo scelto politiche industriali adeguate.

Dunque non le abbiamo messe in connessione con le scelte che abbiamo fatto sul Pnrr?

Io sfido chiunque a trovare una connessione fra le nostre sfide industriali e quello che è visto e previsto dentro le scelte strategiche del Pnrr, per esempio per le politiche di transizione.

Di questo sui giornali mainstream non si parla ma per mesi molto spazio è stato dato agli strali di Bonomi contro quello che il capo di Confindustria chiama “Sussidistan”.

Rispetto a tutto questo ho reagito furiosamente, ricordando che in Italia durante la pandemia sono stati erogati 170 milioni di euro, senza nessuna causale. Sono stati dati a chi ha licenziato, a chi se ne è andato, a chi ha licenziato senza neanche dare il tempo di svuotare gli armadietti. I soldi che invece sono stati dati ai lavoratori, sono stati erogati in modo condizionato. Quando parliamo di cassa integrazione dobbiamo dire che non è stata pagata dalle aziende, la paghiamo tutti noi. Perché sono soldi che abbiamo preso con il programma Sure e che dovremo restituire.

Con la pandemia l’Europa ha avuto per la prima volta il coraggio e la lungimiranza di sospendere il patto si stabilità. Ora cosa accade?

Proprio su questo la Uil ha lanciato una campagna di sensibilizzazione: “Patto di stabilità no grazie”. Con mio rammarico, essendo un europeista convinto, noto che quando si discute di una cosa importante che riguarda l’Europa in Italia non se ne parla. Noi abbiamo posto il problema alle forze politiche. Spero che gli altri colleghi dei sindacati lo facciano quanto prima.

Quali scenari si preparano?

Se non superiamo la logica del patto di stabilità, facendo una critica dell’austerity, cambiando l’impianto economico e finanziario europeo e italiano, fra un paio di anni ci ritroveremo con un governo – qualunque esso sia – che dirà che bisogna rientrare dal debito, e non si potranno fare gli investimenti verdi. Invece io penso che anche dal punto di vista degli investitori ci sia voglia di dare spazio agli investimenti sociali e ambientali. Ricordo che quando varammo il programma Sure, quando si misero a bando gli Eurobond, c’era scetticismo tra i tecnocrati di Bruxelles. Dicevano, i mercati non investiranno. Il risultato è stato invece che le richieste di investimenti su quei bond collegati a Sure e quindi a un programma sociale sono state sei volte maggiori rispetto alla disponibilità emersa.

Next generation Eu resterà un unicum?

Io penso che dovremmo provare a fare in modo che un evento straordinario come Next generation Eu diventi un fatto strutturale della politica europea. È necessario, se vogliamo effettivamente cambiare la politica dell’Europa, se vogliamo davvero cambiare la percezione che se ne ha.

Cambiare il patto di stabilità è un obiettivo fondamentale ma non facile da raggiungere?

Purtroppo neanche il cambio di governo in Germania lo garantisce, considerato che il ministro dell’Economia è un liberale (devo dire però che neanche i socialdemocratici hanno brillato per richieste di modifica). Mettiamola così, spero che questo cambio di passo rispetto alla gestione Merkel possa dare una spinta. In Italia dobbiamo parlare di questi temi, partecipare a questa consultazione spiegando perché quella scelta economica e politica del patto di stabilità e della politica dell’austerity debbano essere cambiate.

Anche la manovra del governo Draghi risente di quelle vecchie politiche?

A mio avviso dovremmo fare, in modo scientifico, una scelta di economia keynesiana. Si dice che quella attuata dal governo sia una manovra espansiva, che ci siano politiche keynesiane, io in realtà ne vedo molto poche, per non dire nessuna. Credo che nessuno di noi sia convinto che il debito pubblico sia una variabile indipendente e dunque si possa arrivare chissà dove. Nelle settimane scorse ho ascoltato grandi elogi del presidente europeo David Sassoli ma nessuno che lo abbia ricordato per il suo ragionamento su come si poteva affrontare il tema del debito.

Quando Sassoli ha osato parlare di cancellazione del debito è stato silenziato, anche dal suo partito.

Tutti quelli che lo hanno lapidato ora dicono quanto era bravo Sassoli. Su questo ci sarebbe molto da riflettere rileggendo il libro di Bobbio, Destra e sinistra. Andrebbe diffuso nelle scuole.


L’intervista prosegue su Left del 28 gennaio 2022 

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