Quello che è accaduto nei giorni della rielezione di Mattarella dovrebbe essere una severa lezione per i partiti. Solo la democrazia proporzionale può rilanciarli

La rielezione del presidente Mattarella ci induce ad alcune prime riflessioni le quali pretendono, certo, più approfondite elaborazioni per gli eventi che scaturiranno. Parto, innanzitutto, dalla lettera dell’articolo 85 della Costituzione: «Il presidente della Repubblica è eletto per sette anni». La Costituzione, quindi, non prevede, anche se non esclude, il secondo settennato. Certo, in una democrazia parlamentare, quattordici anni sono tanti, sono un inedito costituzionale. Siamo di fronte ad una eccezione, quindi; anche se legittima. Occorre vigilanza democratica affinché, dopo il “caso” Napolitano, il secondo mandato non diventi una regola. Lo stesso Mattarella, del resto, nel recente passato, ha parlato di un ulteriore settennato come di una «sgrammaticatura costituzionale». Mai più deve accadere; altrimenti il presidente della Repubblica si trasforma in un oligarca democratico.

Ritengo, come seconda osservazione, che sia un fatto molto positivo un recupero, per quanto fievole e confuso, di dignità da parte del Parlamento. Molti parlamentari hanno voluto Mattarella anche in contrasto con le direttive dei segretari di partito.

Sono state sconfitte – ed è il terzo punto – le due iniziali autocandidature. Quella, grottesca ed improbabile, di Berlusconi; e quella, a mio modesto avviso, pericolosa, di Draghi. L’elezione di Draghi ci avrebbe fatto scivolare, anche in assenza di contrappesi, verso una sorta di quinta repubblica gollista. Draghi non aveva, forse, compreso che doveva essere lui a rispettare la Costituzione, non la Costituzione ad adattarsi alla sua ambizione. Ha immaginato di diventare presidente della Repubblica scegliendo un suo “uomo” come presidente del Consiglio: un iperpresidenzialismo di fatto.

Draghi, ponendo con forza la sua autocandidatura, non ha compreso il…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 febbraio 2022 

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