Minacciata di morte dai talebani, l’attivista Selay Ghaffar è dovuta fuggire dall’Afghanistan. Ma continua la battaglia per i diritti umani: «Conosco tante donne che non si sono rassegnate, l’Occidente non può lasciarle sole»

L’ultima volta l’avevo incontrata a Kabul in una fredda giornata di novembre, nel 2017. Aveva il viso stanco ma gli stessi occhi magnetici e lo sguardo fiero di sempre, un lungo mantello e i capelli neri lunghi sciolti. Un particolare irrilevante per noi ma che non passa inosservato in Afghanistan. Altro che il leone del Panshir, Selay Ghaffar era anche dal vivo la figura carismatica di cui avevo letto e sentito parlare dalle colleghe. Quattro uomini armati e altri apparentemente disarmati ma vigili, controllavano l’ingresso dell’abitazione, una delle tante in cui era costretta a vivere solo per pochi giorni, spesso da sola, senza figli e marito.

Dopo quell’incontro a Kabul, la risento e la rivedo via zoom. È dovuta fuggire anche lei, poco prima di Natale, e per adesso non può dire in quale Paese ha chiesto rifugio. È passato più di un mese da quando ha lasciato l’Afghanistan con il marito ed una delle figlie, e si capisce subito che la costrizione alla fuga è ancora una ferita aperta. Glielo si legge negli occhi, combattenti ma tristi, nella voce che si rompe alla commozione. Sussurra tra una risposta e l’altra. «Mi avevano trovato, il sistema di sicurezza che avevamo messo in piedi era in ginocchio, mi avevano minacciato di nuovo dopo la morte di un’attivista a novembre – Sei tu la prossima…». Quasi a doversi giustificare, dopo anni di minacce vissute nel Paese e anni passati a nascondersi: «Non ho visto i miei figli per settimane e a volte mesi interi, ero costretta a dire che non ero sposata, e a mio marito è stato detto di fare lo stesso, ho cambiato molte case per nascondermi ma rifarei tutto perché so che questo era il prezzo da pagare per essere libera e lottare».   

Le chiedo di agosto, dei giorni della presa di Kabul da parte dei talebani e lei mi interrompe: «La rapida presa da parte dei talebani non è stata una sorpresa per me e per molti altri afgani ma certo la caduta di Kabul in un solo giorno ci ha scioccato».

Portavoce di Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico partito politico laico presente in Afghanistan e figlia di una famiglia di attivisti, Selay ha già conosciuto l’esilio da bambina, quando la famiglia fuggì prima verso l’Iran e, successivamente verso il Pakistan, per liberarsi da un sistema fatto di violenza e discriminazione. Rivoluzionaria e combattente, non risparmia neppure questa volta le aspre critiche alle potenze occidentali, in primis agli Stati Uniti, colpevoli di aver riportato al potere i talebani.

Come giudica il comportamento degli Stati Uniti?
È stato chiaro a tutti gli afgani che…


L’articolo prosegue su Left dell’11-16 febbraio 2022 

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