«Eccellenza, mi riferisco al caso del rev. Nello Giraudo, del clero della sua Diocesi, che fu denunciato nel 1980 per abuso di minori e che nel 2002 manifestava al vicario generale la propria tendenza pedofila. Il suo predecessore, S.E. mons. Calcagno, nel 2003 segnalava il caso a questa Congregazione. Il 4 aprile 2006 egli fu invitato ad avvicinare il chierico per chiedergli se intendesse domandare al Santo Padre la dispensa da tutti gli oneri sacerdotali: in caso contrario, avrebbe dovuto attivare un processo penale amministrativo… nei confronti del sacerdote. Essendo ormai trascorsi quattro anni La invito a voler cortesemente informare questo Dicastero sull’evoluzione del caso». Quello che avete appena letto è il testo di una lettera inviata al vescovo Lupi il 29 marzo 2010 da monsignor Ladaria, all’epoca segretario della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf, la procura generale della Santa sede, conosciuta anche come ex Sant’uffizio). Lupi in quel tempo era capo della diocesi ligure di Savona-Noli.
Come si insabbia un caso di pedofilia nella Chiesa
Queste poche ma emblematiche righe sono lo specchio di un collaudato sistema di insabbiamento, quello utilizzato dalla Chiesa italiana e dal Vaticano per gestire i casi di crimini pedofili segnalati ai capi delle diocesi da sacerdoti che non intendono volgere lo sguardo altrove o da vittime che ritengono possibile ottenere giustizia dalle autorità ecclesiastiche. Converrete con noi che già scorrendo le date riportate nella missiva ci si accorge che c’è qualcosa che non torna.
In pratica, nel 2010 il braccio destro del procuratore generale della Santa Sede chiede conto al capo di una diocesi circa i 4 anni di totale silenzio da parte sua su un caso di pedofilia segnalato presso la stessa diocesi sin dal 1980, ammesso dallo stesso sacerdote nel 2002 e trasmesso alla Cdf, cioè alla procura della Santa Sede, nel 2003. Emerge inoltre che, sebbene nel 2002 la «tendenza pedofila» di Giraudo fosse “ufficialmente” nota, devono passare 4 anni prima che la diocesi lo richiami alle sue responsabilità. Un timidissimo richiamo: “Se non ti dimetti dall’abito talare spontaneamente, ti processiamo”. E il sacerdote reo confesso cosa fa? Evidentemente nulla, così come nulla fa la diocesi nei suoi confronti se 4 anni dopo Ladaria chiede informazioni al suo vescovo sull’evoluzione del caso. In tutto questo, in 30 anni non una parola trapela all’esterno.
Giraudo che negli anni viene spostato da una parrocchia all’altra del savonese e – almeno fino al 2003 – è autorizzato a partecipare ai campi scout, sa benissimo che l’obiettivo primario del “sistema”, di cui lui è solo uno dei tanti ingranaggi, consiste nell’evitare scandali e preservare l’immagine pubblica dell’istituzione ecclesiastica. Se questo casualmente coincide con l’incolumità di nuove potenziali vittime tanto meglio, ma la salute psicofisica dei bambini per tutti gli attori di queste storie è irrilevante. Tanto è vero che nel 2012 Giraudo patteggerà un anno e mezzo davanti al Gip di Savona per l’unico reato che i giudici sono riusciti a salvare dalla prescrizione, la violenza ai danni di minore compiuta (in un campo scout) nel 2005, cioè quando sia la Diocesi che la Congregazione per la dottrina della fede erano a conoscenza da tempo della sua «tendenza».
Prima di raccontare come l'”affaire Giraudo” si leghi al modo in cui oggi la Chiesa italiana “insabbia” le segnalazioni e le denunce di casi di pedofilia di matrice clericale – sottraendole all’azione della magistratura -, vale la pena ricostruire brevemente l’intera vicenda criminale che si è consumata nel savonese.
Lasciarono che i bambini andassero a lui
«Assolutamente omissivo»: così sentenzia il 14 maggio del 2012 il…
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