Dalla Gran Bretagna alla Serbia, dalla Spagna alla Grecia. Un team di ricercatori europei ha analizzato le condizioni di vita nei centri per il rimpatrio dei migranti durante la pandemia nei Paesi dell’Ue e non solo. «Sono strutture da abolire, servono solo come spauracchio»

La Commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatović, all’esplodere della pandemia aveva chiesto ai governi degli Stati membri di sospendere il trattenimento nei centri per il rimpatrio presenti, a vario titolo, nei 27 Paesi dell’Unione. Le motivazioni della raccomandazione erano dettate dal fatto che la chiusura delle frontiere avrebbe impedito di effettuare i rimpatri e che i problemi di ordine sanitario si sarebbero acuiti. Richieste che non sono state mai rispettate.

Un punto di osservazione sulle condizioni dei migranti ora ce lo offre il volume, da pochi giorni in libreria edito da Seb 27, dal titolo Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa ai tempi della sindemia, curato da Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello. Il testo, a cui hanno collaborato ricercatrici e ricercatori in ambiti multidisciplinari e provenienti da diversi Paesi, ha il gran pregio di offrire una panoramica, per quanto non esaustiva (non tutti i 27 Stati sono trattati nel volume che però considera anche Paesi extra Ue) su quanto è accaduto nel sistema di internamento per persone la cui presenza è considerata illegale, soprattutto negli ultimi due anni. Gli autori non mancano di spiegare in sintesi come funzionino nel Paese in esame, tali strutture – che hanno elementi in comune e altri caratteristici legate ai contesti – e i loro punti di vista, come di osservazione, diversi, non impediscono ad ognuna/o di indicare un approccio radicalmente abolizionista come unica soluzione praticabile.

Ne parliamo con Francesca Esposito, lecturer presso la Scuola di scienze sociali all’università di Westminster a Londra e direttrice associata di Border criminologies, (una piattaforma interattiva sulla detenzione ) realizzata all’Università di Oxford. Il suo punto di vista di ricercatrice e attivista – ha lavorato molto soprattutto in merito alla detenzione delle donne migranti – ha il pregio di contenere i dati inequivocabili delle analisi quantitative e qualitative e lo sguardo mai lontano dall’indignazione verso un sistema che considera ingiusto e criminale.

«Premetto che invece di “pandemia” abbiamo scelto di usare il termine “sindemia”, utilizzato da Merrill Singer quando si affrontava l’emergenza Aids. Sindemia perché è impossibile non considerare insieme la crisi sanitaria e i suoi aspetti sociali. Le disparità sociali non solo influiscono nel poter o meno evitare il contagio, ma si sono acuite, creando un numero enorme di nuovi poveri e marginali – afferma Esposito -. Ed entrando nel tema che affrontiamo nel libro, non possiamo che confermare il fatto che il sistema di trattenimento non si è bloccato. Anzi, si è nel frattempo riorganizzato».
La curatrice del libro fa alcuni esempi: «In Italia non c’è stata una misura ufficiale per…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 febbraio 2022 

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