La mostra “Buone nuove” al MAXXI di Roma presenta la rigorosa ricerca e i progetti innovativi delle donne architetto a livello internazionale. Con una tendenza verso linee orizzontali e curve anziché verticali e rette, e in un continuo rapporto con l’ambiente circostante

Architetto? Architetta? Architettrice? È una ricorrente domanda dopo che Melania Mazzucco ha pubblicato per Einaudi il romanzo su Plautilla Bricci,
La mostra al MAXXI a Roma (fino all’11 settembre) si presenta come un’interessante esposizione di architettura, in cui protagoniste sono donne architetto: Buone nuove, allora, come titolano Pippo Ciorra, Elena Motisi, Elena Tinacci che l’hanno curata.
Questa al MAXXI non è la prima occasione di approfondimento sul tema. È da tempo che il mondo dell’architettura si muove in questa direzione (vedi box), ma questa mostra, sia per la città che la ospita che per l’autorevolezza del museo, è una tappa significativa.

Stazioni
La mostra ha una organizzazione limpida che è una delle sue grandi qualità. È scandita infatti in “stazioni” e “tavoli”. Le stazioni sono destinate a dodici donne architetto che creano vere installazioni con plastici, disegni, schermi, ambienti visitabili che simulano le spazialità delle opere.
Colpisce subito Benedetta Tagliabue che nella propria vasta produzione sceglie una sola opera: è il pluripremiato padiglione della Spagna all’Expo di Shanghai del 2010, un lavoro che segna una strada entusiasmante tra tecnologia e artigianato. La ricerca dello studio Embt (Enric Miralles, 1955-2000 e Benedetta Tagliabue) si è concentrata in questa occasione sul tema dell’intreccio che dalla campagna spagnola vola in Cina e permette di realizzare l’opera con il rivestimento esterno fatto da artigiani locali e l’ondulante ossatura metallica prefabbricata e progettata con le più sofisticate tecnologie informatiche. La bellezza voluttuosa della pelle dell’edificio in rafia e canne e del curvilineo spazio interno incanta. Il pubblico al MAXXI apprezza anche un grande pezzo al vero.

Opposto è il lavoro di Elizabeth Diller che ha realizzato due anni fa The Shed. Si tratta di una opera finanziata con la percentuale destinata al sociale (come sarebbe anche da noi in verità) del gigantesco complesso Hudson Yards a New York costruito coprendo i binari ferroviari. The Shed per un verso, è duro e sgradevole, per un altro, magnifico.
Ricordo la Diller quando ne parlò all’inaugurazione undici anni fa al Maxxi proprio di fronte a Zaha Hadid, la progettista del museo romano. In quella occasione Diller anticipò The Shed attraverso una ipotesi di museo “riconfigurabile”. Non si capiva bene cosa avesse in mente. Si pensava a una idea su base elettronica, come Blur, il padiglione-nuvola all’Expo svizzera del 2002 dove diecimila e più ugelli (condotti da cui esce acqua nebulizzata, ndr) avvolgevano l’architettura in maniera sempre diversa e interattiva al mutare del clima e dell’ora. Ma nell’opera realizzata a New York si è di fronte a una riconfigurabilità tutta meccanica ispirata alle gru sulle banchine dell’Hudson. Come una…


L’articolo prosegue su Left del 25 febbraio 2022 

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