Il primo bando del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha stanziato 2,4 miliardi per realizzare nidi d’infanzia, fondamentali per contrastare le disuguaglianze educative. Ma le risorse da sole non bastano, occorre accompagnare gli enti locali nella progettazione

L’istruzione e le opportunità educative fin dalla primissima infanzia sono il mezzo più potente che abbiamo per contrastare la disuguaglianza intergenerazionale, ovvero il legame che esiste fra la condizione socio-economica della famiglia di origine e i redditi ottenuti dai figli una volta diventati adulti. Tanto più le opportunità educative sono precoci tanto più è possibile contrastare questa forma di trasmissione della disuguaglianza e garantire a tutti i bambini uguali opportunità di mobilità sociale.

Una solida letteratura dimostra che le esperienze educative extra familiari precoci sono importanti per tutti, ma diventano fondamentali nel caso dei bambini svantaggiati, economicamente e/o socialmente. Un recente volume curato dal Network EducAzioni ha passato in rassegna diversi studi, i quali (in estrema sintesi) hanno evidenziato questi quattro punti: il primo è che i quindicenni che hanno frequentato più di un anno di educazione prescolare ottengono risultati sostanzialmente migliori rispetto a quelli che non hanno fatto tale esperienza e questo anche tenendo conto delle loro condizioni economiche e sociali di provenienza. Il secondo: i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia hanno maggiori probabilità di completare i successivi cicli di istruzione e di conseguire un titolo universitario e, nel complesso, tendono ad avere un percorso educativo più lungo. Il terzo punto è che i bambini appartenenti a famiglie povere, che hanno la possibilità di frequentare servizi educativi nella prima infanzia, ottengono migliori risultati nel prosieguo della loro vita, sia durante gli studi che nel mercato del lavoro, guadagnando in media il 25% in più da adulti rispetto a coloro che non sono esposti agli stessi stimoli. Infine il volume ha evidenziato che l’investimento nell’educazione (da parte delle famiglie e del sistema educativo) nei primi anni di vita ha rendimenti più elevati rispetto a investimenti più tardivi, in quanto non si devono rimediare “danni” già avvenuti negli anni precedenti.

Il nido è un servizio d’élite
Nonostante queste evidenze, le famiglie che più diffusamente si avvalgono dei servizi educativi per la prima infanzia (di cui i nidi sono la forma più diffusa) sono quelle con redditi e titoli di studio più alti. Infatti, secondo i dati Istat relativi al 2019, il reddito netto annuo equivalente delle famiglie con bambini iscritti a un servizio per la prima infanzia è mediamente più alto (24.213 euro) di quello in cui ci sono bambini non iscritti pur avendo meno di tre anni (17.706 euro). Inoltre, i tassi di frequenza di tali servizi crescono all’aumentare della fascia di reddito familiare (dal 19,3% del primo quinto di reddito si passa al 34,3% dell’ultimo quinto). Anche il titolo di studio dei genitori è una discriminante nella scelta di frequentare un nido. Considerando il titolo di studio più alto in famiglia, il possesso di una laurea o di un titolo superiore è associato al 33,4% di frequenza; un dato che scende al 18,9% nel caso di genitori con al massimo il diploma superiore. L’accesso ai servizi per l’infanzia è influenzato dalla condizione lavorativa dei genitori e, in particolare, da quella della madre. I nuclei in cui le madri sono occupate usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% dei nuclei in cui solo il padre lavora.
Il nido rimane dunque un servizio di élite: le famiglie in cui solo un genitore lavora, e che più spesso hanno un reddito più basso, possono infatti avere difficoltà ad accedere sia ai nidi privati (per via dei costi elevati) sia a quelli pubblici (a causa dei criteri di accesso che solitamente danno precedenza ai nuclei in cui entrambi i genitori lavorano).

Un’offerta debole e frammentata
Sono passati ormai venti anni da quando, nel 2002, il Consiglio europeo ha fissato l’obiettivo di garantire almeno 33 posti in un servizio per la prima infanzia ogni 100 bambini sotto i 3 anni entro il 2010. L’Italia è ancora lontana da questo obiettivo e nel 2019 (dato Istat) il tasso di copertura si attesta al 26,9%.
La situazione peraltro è estremamente diversificata: se il Nord-est e il Centro vantano una copertura che supera il target europeo (rispettivamente 34,5% e 35,3%); il Nord-ovest è sotto tale soglia ma non lontano dall’obiettivo (31,4%) mentre il Sud (14,5 %) e le Isole (15,7%) sono molto distanti dal target.
Se si guarda alle regioni, i livelli di copertura più alti si registrano in Valle D’Aosta (43,9%), cui seguono diverse regioni del Centro-nord, che si collocano tutte sopra il target europeo. Sul versante opposto Campania e Calabria sono ancora sotto l’11%.

Uno spiraglio: Pnrr e legge di bilancio
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stanziato risorse importanti per i nidi e le scuole dell’infanzia. Si tratta in totale di 4,6 miliardi di cui 2,7 riservati al Mezzogiorno. Al momento, il primo bando (pubblicato a dicembre con scadenza il 28 febbraio) ha messo sul piatto 3 miliardi di cui 2,4 per i nidi d’infanzia.
Si tratta di risorse importanti che tuttavia, in linea con quanto accade per altri finanziamenti europei, possono essere destinate esclusivamente alla realizzazione di investimenti e non al sostegno della spesa corrente, ovvero ai costi di gestione del servizio. Queste risorse quindi possono essere destinate alla costruzione e al rifacimento delle strutture ma non al personale necessario a garantirne il funzionamento. Sul punto è però intervenuta la legge di bilancio che, non solo ha stanziato risorse per la gestione dei servizi, ma ha (per la prima volta) introdotto un livello essenziale delle prestazioni (Lep) da garantire su tutto il territorio nazionale in materia di nidi d’infanzia. Tale Lep è parametrato all’obiettivo europeo e prevede quindi che su tutto il territorio nazionale siano presenti almeno 33 posti al nido ogni 100 bambini fino a tre anni, entro il 2027.
Per superare i divari territoriali, la legge di bilancio ha previsto due step. Inizialmente, solo i territori con una dotazione di posti inferiore al 28,88% potranno accedere alle risorse disponibili. Successivamente, quando tutti i Comuni avranno raggiunto tale soglia, gli investimenti si rivolgeranno anche agli altri enti locali finché tutti raggiungeranno la quota minima del 33% di posti. Le risorse stanziate per questo obiettivo ammontano a 120 milioni di euro per il 2022, 175 milioni per il 2023, 230 milioni per il 2024, 300 milioni per il 2025, 450 milioni per il 2026 e 1.100 milioni dal 2027.

I dubbi irrisolti
Le misure sul piatto aprono uno spiraglio e permettono di azzardare un cauto ottimismo. Tuttavia rimane qualche dubbio circa la possibilità effettiva di superare i divari territoriali. L’esperienza dei fondi strutturali ci dice che i territori più fragili sono quelli che hanno maggiori difficoltà nell’accedere e nello spendere tali fondi. Stanziare risorse è quindi condizione necessaria ma purtroppo non sempre sufficiente a generare un cambiamento. I territori più fragili dovrebbero infatti essere sostenuti anche da solidi percorsi di accompagnamento alla progettazione.
Infine, rimane l’amaro in bocca se pensiamo che il nostro Paese, nella migliore delle ipotesi, raggiungerà l’obiettivo europeo con 17 anni di ritardo rispetto alle scadenze dettate dall’Ue venti anni fa. Verrebbe da dire che una generazione di giovani è stata sacrificata.

*L’autrice Chiara Agostini è ricercatrice in Analisi delle politiche pubbliche, fa parte di Percorsi di secondo welfare


L’articolo è stato pubblicato su Left del 25 febbraio 2022 

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