Avvocato, accademico, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, senatore per nove anni, presidente della commissione Lavoro, ex presidente dell’Anpi. Ma, prima di tutto, partigiano. Carlo Smuraglia, che ad agosto compirà 99 anni, ha ricoperto tutti questi ruoli ed è uno degli ultimi alfieri ancora in vita della Costituzione italiana, di quelli che hanno creato le condizioni affinché nascesse e poi l’hanno instancabilmente protetta negli anni dagli attacchi di coloro ai quali stava “stretta”. Dai vertici della Associazione dei partigiani d’Italia, di cui attualmente è presidente onorario, ha partecipato alle più importanti battaglie democratiche del nostro Paese, fino a quella per il No alla “deforma” costituzionale di Renzi del 2016. E tutt’ora non si tira certo indietro, quando c’è da prendere posizione in difesa dei valori costituzionali. L’abbiamo raggiunto telefonicamente, alla vigilia della festa della Liberazione. Mentre parliamo, sui giornali, impazza la polemica circa la postura assunta dall’attuale presidenza dell’Anpi a proposito della guerra in Ucraina. Rappresentata sia da una legittima quanto netta posizione contro l’invio di armi da parte dell’Italia al governo di Kiev che da un meno condivisibile comunicato a proposito della strage di Bucha, che di fatto metteva in dubbio la responsabilità russa dello sterminio rischiando di fare eco alla propaganda di Mosca.
A Smuraglia chiediamo un parere anche sulla guerra e come leggere il conflitto dal punto di vista di un combattente per la libertà.
Presidente, in un’intervista su Repubblica ha detto che quella che stanno facendo gli ucraini può essere considerata Resistenza. Perché?
Ogni volta che è necessario contrapporsi a minacce alla libertà di un Paese, entra in campo la possibilità di resistere. Ora, il termine “resistenza”, in effetti, può essere inteso equivocamente. Il punto è che quando noi parliamo della Resistenza italiana, o di altri Paesi, non ci riferiamo solo alla difesa da un nemico, ma a qualcosa che comprende anche l’idea di attacco, di reazione ad una violenza. La Resistenza, in Italia e non solo, è stata anche questo, è stata combattimento non solamente per difendersi ma anche per colpire il nemico. Un Paese la cui indipendenza e libertà sono minacciate ha il diritto e il dovere di difendersi e di pretendere che la propria libertà sia garantita. E i Paesi civili che lo circondano hanno il dovere di essere solidali e sostenere una battaglia per la democrazia, la libertà e la dignità. Su questo credo che non possano esserci transazioni, riduzioni o concessioni di alcun genere, si tratta di principi assoluti e inderogabili. Non possiamo dire “mah, in questo momento, per questa ragione, si può non applicarli”. No, sono intangibili.
Possiamo definire Putin un “fascista”?
Beh, in un certo senso pensiamo al fascismo come qualunque fenomeno che contenga e riduca la libertà. Ad ogni modo paragonare le due circostanze ha poca importanza. Mi pare che l’operato di Putin si qualifichi da sé, in qualsiasi maniera lo si voglia chiamare.
Lei si è espresso favorevolmente all’invio di armi al governo di Kiev. Come mai?
Quella del sostegno alla resistenza armata ucraina è una materia di ampia discussione. Quando ci troviamo di fronte ad una situazione di oppressione, dove una parte più forte opprime la più debole, il nostro primo istinto ci suggerisce di sostenere i più deboli. E di farlo con tutti gli strumenti possibili, dunque in questo caso anche fornendogli delle armi. Qualcuno però ribatte “fornire armamenti può essere pericoloso, perché può ampliare la guerra”. Ho capito, però questo pericolo va sempre valutato per quello che è realmente. Quando c’è un simile conflitto in atto, con una tale disparità di condizioni, il mio parere è che il soggetto oppresso e più debole debba essere sempre sostenuto in ogni modo, anche con lo strumento delle armi. Ciò può rappresentare un rischio, certo, ma pur di difendere il più debole occorre correre qualche rischio.
Il pericolo, però, è che si arrivi ad un coinvolgimento diretto dell’Italia nella guerra…
Occorre fare il possibile per non farci coinvolgere nel conflitto, su questo non c’è dubbio. La guerra è un nemico invisibile sempre presente, da cui dobbiamo guardarci. Dobbiamo mettere in atto tutte le misure necessarie per fornire il massimo aiuto possibile all’Ucraina senza essere direttamente coinvolti nella guerra. Questo è assolutamente possibile, ed è avvenuto storicamente in molti casi, sappiamo che si può fare, ovvio bisogna stare molto attenti.
Secondo alcuni, per far finire subito la guerra, Zelensky dovrebbe mettere sul tavolo la cessione di una parte del territorio ucraino alla Russia. Sarebbe un compromesso ragionevole?
Non me ne intendo abbastanza per esprimermi sul tema con precisione, credo comunque che si debba mantenere un certo senso della misura.
Veniamo al 25 aprile. Qual è, oggi, il significato dell’anniversario della Liberazione?
La festa della Liberazione ha un enorme e importantissimo significato sempre, perché ricorda il momento in cui l’Italia si è finalmente liberata, dopo tanti anni, dopo il fascismo, da un conflitto mondiale. Ho bene in mente il “primo 25 aprile”, quello del 1945, prima che diventasse una festa ufficiale l’anno successivo. Il senso di liberazione che ci pervadeva, la gioia di sentirci finalmente liberi dalla guerra, dalle oppressioni, dall’invasione, dalle occupazioni, dalla sottomissione ad altri Paesi. Fu un giorno di un entusiasmo enorme per tutti, dovunque ci si trovasse e qualsiasi cosa si stesse facendo. Ebbene, il 25 aprile non può perdere questo carattere e spero non lo perda mai. Perché un Paese democratico ha bisogno di ricordare le date fondamentali della propria esistenza, e non con una memoria “statica”. Il 25 aprile non è un semplice ricordo del passato, ma anche una speranza per il futuro, la speranza di restare sempre un Paese libero e democratico.
Chi dovrebbe festeggiarlo?
La Liberazione è una festa che dovrebbe essere di tutti, indipendentemente dal proprio orientamento politico, dalla propria adesione o meno ad un partito. Deve esserci questo tratto unificante nel 25 aprile, perché tutti dovremmo volere un’Italia libera e indipendente, che abbia il senso della propria libertà nel sangue, per così dire. Questa è la sostanza della democrazia. Per questo spero che ogni anno il 25 aprile venga ricordato non come una solennità formale, come un appuntamento convenzionale, bensì come qualcosa che, ripensando all’esperienza partigiana della Liberazione, sappia continuamente rinnovarsi.
La Costituzione è il lascito più importante che i partigiani ci hanno consegnato. Qual è la parte che oggi più ha bisogno di essere rammentata?
Quella relativa al diritto al lavoro. Il lavoro è un elemento essenziale della vita del Paese e la nostra Costituzione parte proprio da lì. Nella Carta il “lavoro” viene inteso non come qualcosa di astratto, non ci si riferisce semplicemente alla fatica, ma ad una attività produttiva in cui una persona impegna la propria personalità, partecipando alla vita del Paese, contribuendo al benessere di tutti e soprattutto migliorando e approfondendo la propria personalità, realizzazione e consapevolezza di sé. Ecco, questa parte della Costituzione oggi è particolarmente trascurata.
Basti pensare alla strage senza soste sui luoghi di lavoro. Nel 2022 ben 182 persone hanno perso la vita secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna sulle morti sul lavoro. E l’Inail dice che nel primo bimestre di quest’anno gli infortuni mortali hanno avuto un incremento del 9,6% rispetto allo stesso periodo del 2021…
Certo, questo è uno dei drammi che chi governa in Italia non riesce a risolvere. Ci sono troppe morti sul lavoro. Persino in momenti in cui la produzione diminuiva a causa della pandemia, il trend non è proporzionalmente calato. È un incubo. La Costituzione proclama che il lavoro deve essere sicuro e dignitoso. L’avvio un’attività imprenditoriale dovrebbe avere come requisito indispensabile la garanzia di non mettere a repentaglio tre cose: la dignità e la salute del lavoratore e la sua libertà. Chi lavora mette ovviamente a disposizione le proprie energie, ma per il resto è, e deve restare, un cittadino libero. Se il lavoro non è sicuro, si genera una contraddizione in termini, per cui il perno della nostra Repubblica diventa causa di malattia o di morte. Persino in alcune norme del periodo fascista, per quanto il tema non fosse certo una priorità all’epoca, si richiedeva all’imprenditore di osservare alcune misure necessarie relative alla sicurezza sul lavoro. È un tema che deve andare al di là degli schieramenti politici, che deve essere posto al di sopra di tutto.
In Italia il problema del neofascismo è più attuale che mai. Una parte dell’estrema destra ha provato a lucrare consensi durante la pandemia speculando sulle paure delle persone. Come arginare con efficacia queste derive?
Occorre espandere di più la nozione di antifascismo. Spesso si immagina la società italiana come divisa in due parti contrapposte, da un lato i fascisti e dall’altra gli antifascisti, quasi fossero due fazioni “paragonabili”. La parte degli “antifascisti” dovrebbe essere immensamente più ampia rispetto a quella che solitamente il termine finisce con l’indicare. Dovrebbe essere quella di tutti coloro che magari non si riconoscono in una particolare etichetta, ma comunque non tollerano che ci sia qualcuno contrario alla libertà, e son dunque contrari ad ogni forma di fascismo. Tutti i cittadini, infatti, a prescindere dal loro eventuale impegno politico, devono essere impegnati nel difendere la libertà, che è un bene intangibile. Chi la minaccia è un nemico della democrazia e bisogna difendersi da qualunque orientamento che in qualche modo vada contro all’idea della democrazia, della libertà e della convivenza in pari dignità sociale.
In queste settimane abbiamo avuto conferma che in Italia una tensione verso l’uomo forte è diffusa non solo nella destra, ma anche in una porzione della “estrema sinistra”, fra i rossobruni, nella forma di un putinismo più o meno strisciante…
Purtroppo ci sono molti simpatizzanti dell’uomo forte tout court, non solo di quello in Russia o in altri Paesi. Ogni tanto in Italia c’è qualcuno che pensa all’uomo forte che potrebbe risolvere i “problemi” della democrazia. È un gravissimo errore che occorre togliere di mezzo dalla discussione civile. Gli antichi ateniesi, là dove è nata la democrazia, ci hanno insegnato che essa si esprime nella sua forma più elementare quando i cittadini in condizione di uguaglianza si trovano in piazza e decidono insieme. Noi oggi eleggiamo i nostri rappresentanti, i parlamentari, deleghiamo loro il compito di decidere, non lo facciamo direttamente, e questo è lecito e consentito. Ma nulla di più può essere accettato, al di là di questo si entra in un campo minato estremamente pericoloso e dannoso. La necessità dell’uomo forte non deve neanche essere formulata, neanche pensata.
In che modo possiamo trasmettere i valori della Resistenza alle nuove generazioni, senza annoiarsi, facendole appassionare?
Occorre saperlo fare. Faccio un esempio. Una volta una collega del mio studio professionale mi ha chiesto di andare a casa sua, perché raccontassi al suo figlio piccolo un po’ di storie sulla Resistenza. Gli ho risposto che non era semplice, ma che sarei andato. Mentre lui mangiava, ho deciso di narrargli alcuni degli episodi più divertenti, se così si può dire, della mia esperienza da partigiano. Tipo quello di quando commettemmo un errore andando di pattuglia di notte, sbagliammo a leggere la carta, e ci trovammo tutto intorno a noi persone che parlavano tedesco. Capitammo insomma in mezzo ai nemici e dovemmo trovare un modo per fuggire. Il bambino rideva e ascoltava mentre mangiava, la mamma era contenta. Dobbiamo partire dall’idea che se mi relaziono con un bambino, o con un ragazzo, non posso raccontagli solo gli ideali per cui ci siamo battuti. Per instillargli i nostri valori occorre prima renderla partecipe della nostra esperienza, specie se quella persona sa poco o nulla della vicenda partigiana.
Com’è finita, poi, la storia di quando vi trovaste in mezzo ai nemici?
È una disavventura che ho raccontato più volte per intero andando nelle scuole, di fronte a ragazzi più grandi, incontrando sempre una platea attenta e curiosa. Perché quando raccontiamo pomposamente ai giovani le “vicende gloriose” del periodo della Resistenza, in realtà non diciamo loro granché. È inutile fare gli eroi. Ebbene, tornando alla storia, ci capitò appunto di andare di pattuglia una notte, e a tenere la carta geografica c’era uno di noi che era stato tenente. Peccato che non la sapesse leggere. Per cui ci trovammo in bocca al nemico, in un punto in cui non avremmo dovuto essere. Pensai “oddio siamo caduti in trappola”. A lungo riflettemmo sul da farsi. Uno di noi propose di dare le nostre coordinate al centro di comando, affinché fosse bombardata quella zona in cui c’erano fascisti e tedeschi. Ma poi realizzammo che così avrebbero bombardato anche noi. Dopo una grande discussione scegliemmo un’opzione che nessuna scuola militare avrebbe mai insegnato. All’improvviso, tutti assieme, usammo tutte le armi che avevamo, per far credere ai tedeschi di essere in mille, e nel mentre ci demmo alla fuga. L’operazione riuscì perfettamente, e ce la cavammo così. Tutte le volte che ho raccontato questa storia, i ragazzi si sono immedesimati nella nostra inesperienza, nella nostra gioventù, e nella scelta di fare una cosa un po’ azzardata e impensabile se vuoi.
Si tratta di un modo molto “umano” di ripercorrere la vicenda partigiana, che non tutti hanno avuto la sensibilità di proporre…
Una volta fui invitato a parlare ad un gruppo di studenti assieme ad un vecchio partigiano. Lui aveva iniziato subito a parlare degli scontri, di quando aveva incontrato i nemici armi in pugno, “ne abbiamo sbudellati due” spiegava. Io ero orripilato. I ragazzi non erano minimamente interessati. Si appassionarono molto di più al mio racconto di quando facemmo una birichinata.
Quale birichinata?
Io frequentavo la Scuola normale superiore di Pisa, e la sera della vigilia dell’1maggio uscimmo di nascosto saltando dalla finestra ,perché i cancelli chiudevano alle 22, per andare a scrivere di nascosto sui muri della città “Viva il Primo maggio”. Ci scoprirono e ci diedero alcuni giorni di sospensione. Fu un tentativo anche ingenuo di uscire dalla “normalità” dell’epoca e fare un gesto positivo. Questo è un aneddoto che i ragazzi “capivano”. Li ho visti ridere ed appassionarsi a questo piccolo racconto. Se invece gli avessimo soltanto parlato delle “eroiche gesta partigiane” li avremmo fatti meno interessare a questa vicenda. Un giovane deve potersi riconoscere nei partigiani, deve potersi immedesimare in loro, così da interrogarsi e da pensare “cosa avrei fatto io in quel caso?”. Se ci limitiamo a spiegare come siamo stati noi, e come dovrebbero essere loro, allora i ragazzi non ci ascoltano.
Ho la sensazione che questa attività, ossia immedesimarsi nell’esperienza della resistenza vissuta dalle singole persone, sarebbe un utile esercizio anche per chi oggi parla dell’Ucraina. Spesso si sente dire “questo è ciò che vuole Putin”, “questo è ciò che vuole Zelensky”, “questo è ciò che vuole l’Occidente”. Ma troppo poco ci si chiede “cosa vogliono i cittadini ucraini? E “cosa vorremmo noi se fossimo al loro posto?”.
È assolutamente vero, in realtà non si parla quasi mai dei singoli ucraini. Pensiamo ai vertici dei governi, delle strutture organizzate, ma non al cittadino medio, cosa pensa, come vive la situazione e come prova a resistere.
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