L’escalation militare sostenuta dalla Nato e dagli Usa che hanno armato e addestrato per 8 anni gli ucraini e ora inviano armi pesanti - con tutta evidenza - non ferma il conflitto. Non serve neanche a garantire corridoi umanitari sicuri per mettere in salvo la popolazione. Ma anche di fronte a questa drammatica evidenza in molti - compreso l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Borrell - dicono irresponsabilmente che la soluzione non si potrà che giocare sul campo militare, in un confronto di forze. Costi quel che costi in termini di vite umane fra i civili ucraini.
Quando già c’è stata una immane carneficina e non si contano più le fosse comuni. Il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Austin ha affermato esplicitamente che l’obiettivo primario è indebolire Putin, non far cessare il fuoco. Del resto il presidente Biden aveva già parlato della necessità di un cambio di regime al Cremlino. Si palesa così la strategia che avevamo sempre paventato, di una guerra per procura fra Usa e Russia, sulla pelle degli ucraini. Intanto il conflitto rischia di allargarsi ulteriormente. E il ministro degli esteri russo Lavrov torna ad agitare lo spettro della terza guerra mondiale.
A fronte di questa escalation di violenza iniziata con il deliberato e criminale attacco di Putin chiediamo con forza una escalation diplomatica. Chiediamo che l’Europa non rinunci a giocare un ruolo di primo piano nel cercare di avviare una trattativa, per trovare una via di uscita dal conflitto. Non lasciando che sia solo un autocrate come Erdoğan a proporsi come mediatore. Mediatore, peraltro, interessato e bifronte che fornisce armi all’Ucraina e al contempo tesse rapporti economici con l’amica-nemica Russia (dal nucleare al turismo). Mediatore interessato che riceve fiumi di denaro dalla stessa Europa per la gestione repressiva dei flussi migratori.
Nella partita della guerra russa all’Ucraina Erdoğan punta a rifarsi un’immagine internazionale, mentre violentemente attacca i curdi e reprime il dissenso interno. Basti pensare all’ignominia dell’ergastolo comminato all’editore e filantropo Osman Cavala, reo di aver sostenuto la pacifica protesta di Gezi Park.
L’Unione europea intanto tace e ne è complice. Lo rimarchiamo con dolore, da innamorati del sogno di un’Europa politica come casa comune dei popoli e delle culture, culla dei diritti civili e sociali, preconizzata dagli antifascisti Rossi, Colorni e Spinelli nel 1941 nel carcere di Ventotene. Un’Europa che non sia solo una mera unione di mercati ha il dovere di non arrendersi alla logica della violenza e della sopraffazione, ha il dovere di costruire una prospettiva di pace anche giocandosi la carta del dialogo con la Cina, sollecitandone il lavoro diplomatico in Russia e l’uscita dall’ambiguità.
Fin qui malgrado abbia votato contro la sospensione della Russia dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, malgrado l’esplicita contrarietà alle sanzioni, non risulta che Pechino abbia aiutato concretamente Putin nella sua pazza guerra di aggressione. La tradizionale politica cinese di non ingerenza, l’esigenza di stabilità e di globalizzazione commerciale, fanno sì che Xi Jinping, anche in vista di un terzo mandato presidenziale a ottobre, non abbia alcun interesse a fomentare la guerra in Ucraina, per quanto possa in certo modo profittare dell’indebolimento della Russia.
Ora che i Paesi del gruppo di Visegrad appaiono divisi e indeboliti dall’esito delle elezioni in Francia e Slovenia, Bruxelles dovrebbe anche tornare a guardare al Mediterraneo invertendo radicalmente la rotta rispetto a politiche di esternalizzazione dei confini e di commercio di armi che non fanno che alimentare regimi autoritari (dall’Egitto alla Turchia) e conflitti. Emblematico è il caso dalla Libia, uno Stato di fatto fallito, in mano a bande di trafficanti e schiavisti ampiamente foraggiati dall’Europa e in particolare dall’Italia, grazie agli accordi stipulati da Gentiloni.
Ma su questo numero parliamo anche del Marocco che nega i diritti del popolo Saharawi con la complicità della Spagna. Parliamo della lotta del popolo curdo, che l’Europa ha abbandonato dopo averne esaltato l’eroica resistenza all’Isis. Parliamo di Yemen, dove la guerra non si è mai fermata dal 2015 e dove fino a poco più di un anno fa la popolazione civile è stata attaccata dalle bombe saudite fabbricate in Germania, in Gran Bretagna e in Italia. Parliamo di Palestina dove, nel silenzio generale, Israele continua le sue politiche di occupazione, colonizzazione e discriminazione. Parliamo di Afghanistan dove, dopo la disastrosa occupazione e ritirata delle truppe Usa e Nato, si sta consumando una immane tragedia umanitaria.
Quell’Europa che giustamente ha aperto le porte ai profughi ucraini non le chiuda davanti a quelli provenienti dalla Siria, dall’Iraq, dallo Yemen, dai tanti Paesi africani dove guerre, tirannie e povertà negano una possibilità di vita.
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Terzo mese di guerra. L’offensiva imperialista di Putin, benedetta dalla Chiesa del patriarca Kirill, non si ferma. In Ucraina distruzioni, depredazioni, eccidi, esecuzioni di civili, stupri come arma di guerra, come già in Bosnia, come accade quotidianamente nei lager libici.
L’escalation militare sostenuta dalla Nato e dagli Usa che hanno armato e addestrato per 8 anni gli ucraini e ora inviano armi pesanti – con tutta evidenza – non ferma il conflitto. Non serve neanche a garantire corridoi umanitari sicuri per mettere in salvo la popolazione. Ma anche di fronte a questa drammatica evidenza in molti – compreso l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Borrell – dicono irresponsabilmente che la soluzione non si potrà che giocare sul campo militare, in un confronto di forze. Costi quel che costi in termini di vite umane fra i civili ucraini.
Quando già c’è stata una immane carneficina e non si contano più le fosse comuni. Il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Austin ha affermato esplicitamente che l’obiettivo primario è indebolire Putin, non far cessare il fuoco. Del resto il presidente Biden aveva già parlato della necessità di un cambio di regime al Cremlino. Si palesa così la strategia che avevamo sempre paventato, di una guerra per procura fra Usa e Russia, sulla pelle degli ucraini. Intanto il conflitto rischia di allargarsi ulteriormente. E il ministro degli esteri russo Lavrov torna ad agitare lo spettro della terza guerra mondiale.
A fronte di questa escalation di violenza iniziata con il deliberato e criminale attacco di Putin chiediamo con forza una escalation diplomatica. Chiediamo che l’Europa non rinunci a giocare un ruolo di primo piano nel cercare di avviare una trattativa, per trovare una via di uscita dal conflitto. Non lasciando che sia solo un autocrate come Erdoğan a proporsi come mediatore. Mediatore, peraltro, interessato e bifronte che fornisce armi all’Ucraina e al contempo tesse rapporti economici con l’amica-nemica Russia (dal nucleare al turismo). Mediatore interessato che riceve fiumi di denaro dalla stessa Europa per la gestione repressiva dei flussi migratori.
Nella partita della guerra russa all’Ucraina Erdoğan punta a rifarsi un’immagine internazionale, mentre violentemente attacca i curdi e reprime il dissenso interno. Basti pensare all’ignominia dell’ergastolo comminato all’editore e filantropo Osman Cavala, reo di aver sostenuto la pacifica protesta di Gezi Park.
L’Unione europea intanto tace e ne è complice. Lo rimarchiamo con dolore, da innamorati del sogno di un’Europa politica come casa comune dei popoli e delle culture, culla dei diritti civili e sociali, preconizzata dagli antifascisti Rossi, Colorni e Spinelli nel 1941 nel carcere di Ventotene. Un’Europa che non sia solo una mera unione di mercati ha il dovere di non arrendersi alla logica della violenza e della sopraffazione, ha il dovere di costruire una prospettiva di pace anche giocandosi la carta del dialogo con la Cina, sollecitandone il lavoro diplomatico in Russia e l’uscita dall’ambiguità.
Fin qui malgrado abbia votato contro la sospensione della Russia dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, malgrado l’esplicita contrarietà alle sanzioni, non risulta che Pechino abbia aiutato concretamente Putin nella sua pazza guerra di aggressione. La tradizionale politica cinese di non ingerenza, l’esigenza di stabilità e di globalizzazione commerciale, fanno sì che Xi Jinping, anche in vista di un terzo mandato presidenziale a ottobre, non abbia alcun interesse a fomentare la guerra in Ucraina, per quanto possa in certo modo profittare dell’indebolimento della Russia.
Ora che i Paesi del gruppo di Visegrad appaiono divisi e indeboliti dall’esito delle elezioni in Francia e Slovenia, Bruxelles dovrebbe anche tornare a guardare al Mediterraneo invertendo radicalmente la rotta rispetto a politiche di esternalizzazione dei confini e di commercio di armi che non fanno che alimentare regimi autoritari (dall’Egitto alla Turchia) e conflitti. Emblematico è il caso dalla Libia, uno Stato di fatto fallito, in mano a bande di trafficanti e schiavisti ampiamente foraggiati dall’Europa e in particolare dall’Italia, grazie agli accordi stipulati da Gentiloni.
Ma su questo numero parliamo anche del Marocco che nega i diritti del popolo Saharawi con la complicità della Spagna. Parliamo della lotta del popolo curdo, che l’Europa ha abbandonato dopo averne esaltato l’eroica resistenza all’Isis. Parliamo di Yemen, dove la guerra non si è mai fermata dal 2015 e dove fino a poco più di un anno fa la popolazione civile è stata attaccata dalle bombe saudite fabbricate in Germania, in Gran Bretagna e in Italia. Parliamo di Palestina dove, nel silenzio generale, Israele continua le sue politiche di occupazione, colonizzazione e discriminazione. Parliamo di Afghanistan dove, dopo la disastrosa occupazione e ritirata delle truppe Usa e Nato, si sta consumando una immane tragedia umanitaria.
Quell’Europa che giustamente ha aperto le porte ai profughi ucraini non le chiuda davanti a quelli provenienti dalla Siria, dall’Iraq, dallo Yemen, dai tanti Paesi africani dove guerre, tirannie e povertà negano una possibilità di vita.
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