La giornalista palestinese Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata uccisa giovedì 11 aprile durante un'operazione dell'esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nei territori occupati della Cisgiordania. Indossava il giubbotto con la scritta "Press": era difficile non riconoscerla. Della sua morte circolano dei video che mostrano chiaramente che non era in corso nessun «conflitto a fuoco». Il proiettile chirurgicamente piantato nell'unico posto non protetto dal giubbotto e dall'elmetto indica una precisa volontà. Le forze israeliane hanno occupato l'abitazione di Shireen Abu Akleh parlando di «assembramento non autorizzato». Perfino piangere i morti è vietato, se si è palestinesi. Israele dal canto suo ha prima parlato di un «proiettile vagante sparato da palestinesi» (che ricorda molto il sasso che avrebbe ucciso Carlo Giuliani a Genova durante il G8). Poi, resosi conto dell'assurdità degna di un Putin qualsiasi, il tenente generale Aviv Kochavi ha detto che ora non è chiaro chi abbia sparato il colpo che ha ucciso Abu Akleh. Omar Shakir, direttore israeliano e palestinese di Human rights watch, ha detto che l'organizzazione sta esaminando l'uccisione di Abu Akleh, ma ha denunciato le indagini israeliane come «tentativi di despistaggio». Uccidere una giornalista è un crimine di guerra, si sa, soprattutto di questi tempi. Eppure la notizia in Italia è stata data con una timidezza immorale, con una sconvolgente ritrosia a chiamare Palestina la Palestina, a raccontare di un invaso e un invasore, un aggressore e un aggredito. La boria bellicista che in questi mesi inonda i cuori di molti nostri giornalisti ieri è stata insolitamente fiacca. I nemici dell'equidistanza ieri sono stati tutti talmente equidistanti da avere sorvolato un assassinio. Peccato solo che ci siano i video dell'accaduto altrimenti sono sicuro che qualcuno avrebbe raccontato in scioltezza che Shireen Abu Akleh fosse semplicemente caduta dalle scale. Buon giovedì.

La giornalista palestinese Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata uccisa giovedì 11 aprile durante un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nei territori occupati della Cisgiordania. Indossava il giubbotto con la scritta “Press”: era difficile non riconoscerla.

Della sua morte circolano dei video che mostrano chiaramente che non era in corso nessun «conflitto a fuoco». Il proiettile chirurgicamente piantato nell’unico posto non protetto dal giubbotto e dall’elmetto indica una precisa volontà.

Le forze israeliane hanno occupato l’abitazione di Shireen Abu Akleh parlando di «assembramento non autorizzato». Perfino piangere i morti è vietato, se si è palestinesi. Israele dal canto suo ha prima parlato di un «proiettile vagante sparato da palestinesi» (che ricorda molto il sasso che avrebbe ucciso Carlo Giuliani a Genova durante il G8). Poi, resosi conto dell’assurdità degna di un Putin qualsiasi, il tenente generale Aviv Kochavi ha detto che ora non è chiaro chi abbia sparato il colpo che ha ucciso Abu Akleh. Omar Shakir, direttore israeliano e palestinese di Human rights watch, ha detto che l’organizzazione sta esaminando l’uccisione di Abu Akleh, ma ha denunciato le indagini israeliane come «tentativi di despistaggio».

Uccidere una giornalista è un crimine di guerra, si sa, soprattutto di questi tempi. Eppure la notizia in Italia è stata data con una timidezza immorale, con una sconvolgente ritrosia a chiamare Palestina la Palestina, a raccontare di un invaso e un invasore, un aggressore e un aggredito. La boria bellicista che in questi mesi inonda i cuori di molti nostri giornalisti ieri è stata insolitamente fiacca. I nemici dell’equidistanza ieri sono stati tutti talmente equidistanti da avere sorvolato un assassinio.

Peccato solo che ci siano i video dell’accaduto altrimenti sono sicuro che qualcuno avrebbe raccontato in scioltezza che Shireen Abu Akleh fosse semplicemente caduta dalle scale.

Buon giovedì.

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.