Con il suo criminale attacco all’Ucraina Putin è riuscito a determinare esattamente quello che più paventava: rafforzare la Nato, rimetterla in piedi, compattarla e allargarla. Tanto che ora perfino due Paesi di lunga tradizione democratica e neutrale come la Svezia e la Finlandia, chiedono di entrare nell’alleanza atlantica a trazione Usa. Quella Nato che nel 2019 era stata data per cerebralmente morta da Macron è stata resuscitata proprio dal presidente russo. E una nuova cortina di ferro si innalzerà fra Russia e Finlandia lungo quei 1.300 chilometri di confine.

Siamo certi che questa corsa scandinava sotto l’ombrello nucleare Nato porti maggiore sicurezza e non sia letta come una provocazione e usata come scusa dalla potenza nucleare russa? Fin qui Putin ha risposto che la Finlandia non rappresenta una minaccia e si è limitato a dire che il suo ingresso nella Nato è «un errore politico». Ma c’è qualcuno che ancora crede alle sue parole dopo che più e più volte aveva ripetuto di non volere invadere l’Ucraina, salvo poi passare all’atto? Siamo certi che questa perfettamente legittima richiesta da parte dei due Paesi scandinavi (per altro già molto ben armati) non getti nuova benzina sul fuoco del conflitto che da tre mesi dilania l’Ucraina?

Nel frattempo nel Donbass e non solo la guerra entra in una nuova fase: da una guerra difensiva potrebbe diventare offensiva. Dall’Occidente arrivano altre armi e più pesanti che potrebbero essere usate anche per contrattaccare in territorio russo. Quante altre persone devono ancora morire perché si arrivi a un tavolo di negoziato? Come uscire da questa spirale di violenza che non potrà che portare ancora più strazio, morte e distruzione? La questione del cessate il fuoco sembra del tutto sparita dalle agende. Tace l’iniziativa europea per un negoziato che abbiamo sempre chiesto con forza.

Non si parla più di ritorno alla conferenza di Helsinki del 1975 che fu un pilastro nella costruzione della pace. E la Helsinki di oggi addirittura rinnega la propria lunga storia di neutralità. Ad annunciarlo è stata la sua giovane premier progressista Senna Marin, seguita a ruota dalla collega svedese, Magdalena Andersson. Ci avevano colpito, lo scorso marzo, le immagini che la ritraevano con casco e mimetica alla guida di un carro armato durante una esercitazione della Nato.

Sì certo, benché non aderenti alla Alleanza atlantica i due Paesi avevano sempre collaborato. Ma ora quelle immagini assumono un nuovo significato e una luce assai più inquietante. Fanno balenare la paura di una nuova escalation, di un allargamento del conflitto. Oltre a una immensa tristezza - come approfondisce Monica Quirico su Left - nel veder così gettare alle ortiche la lezione di Olof Palme, padre della “neutralità attiva” della Svezia, che pagò con la vita, probabilmente, la sua battaglia contro i trafficanti di armi.

Duole dirlo, ma di politici progressisti e di rango come lui che lavorino per la pace non se ne vedono oggi. Neanche in Europa. Tornano alla mente le parole del cancelliere socialdemocratico Scholz, «il pacifismo è superato» e il salto di paradigma che con lui alla guida del governo ha compiuto la Germania aumentando di 100 miliardi le spese militari.

Tornano in mente le parole dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e membro del Psoe, Joseph Borrel, che già settimane fa aveva detto che non era tempo di dialogo e che la guerra si doveva consumare fino in fondo sul campo.

Colpisce che nel momento in cui il presidente Zelensky ha avanzato timide aperture sul negoziato, lasciando intendere di essere disposto a mettere da parte la questione della Crimea, il presidente della Nato Stoltenberg lo abbia rintuzzato dicendo in sostanza “non se ne parla” (al di là dei distinguo filologici). Ora il capo della Nato incita l’Ucraina alla vittoria sul campo. Facendo eco al presidente Biden, alla sua escalation militare e semantica, come se l’obiettivo non fosse fermare la guerra ma un cambio di regime in Russia. Cambio di regime, che come abbiamo scritto tante volte, sarebbe assai auspicabile se giungesse del basso, da una iniziativa democratica e popolare. Ma se imposto in un’ottica di “esportazione della democrazia” non potrebbe che far danni come già abbiamo visto in Iraq, in Afghanistan, in Kosovo e in molti altri Paesi dove la Nato è intervenuta rispondendo al comando Usa.

In questo quadro “esultare”, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri Di Maio, per la richiesta di ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, in momento delicatissimo come quello che stiamo attraversando ci pare a dir poco inopportuno. Di Maio più atlantista di Draghi. Il che è tutto dire. È grave che un nuovo voto del Parlamento sull’invio delle armi non ci sia stato. Mentre si prospetta un allargamento della Nato e un innalzamento dello scontro internazionale, quella larga parte del Paese che non vuole la guerra e l’invio delle armi resta inascoltata e, di fatto, senza rappresentanza.

* In foto, il primo ministro svedese Magdalena Andersson alla esercitazione militare internazionale Cold response. Narvik, Norvegia, 21 marzo 2022
L'articolo prosegue su Left del 20 maggio 2022 
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Con il suo criminale attacco all’Ucraina Putin è riuscito a determinare esattamente quello che più paventava: rafforzare la Nato, rimetterla in piedi, compattarla e allargarla. Tanto che ora perfino due Paesi di lunga tradizione democratica e neutrale come la Svezia e la Finlandia, chiedono di entrare nell’alleanza atlantica a trazione Usa. Quella Nato che nel 2019 era stata data per cerebralmente morta da Macron è stata resuscitata proprio dal presidente russo. E una nuova cortina di ferro si innalzerà fra Russia e Finlandia lungo quei 1.300 chilometri di confine.

Siamo certi che questa corsa scandinava sotto l’ombrello nucleare Nato porti maggiore sicurezza e non sia letta come una provocazione e usata come scusa dalla potenza nucleare russa? Fin qui Putin ha risposto che la Finlandia non rappresenta una minaccia e si è limitato a dire che il suo ingresso nella Nato è «un errore politico». Ma c’è qualcuno che ancora crede alle sue parole dopo che più e più volte aveva ripetuto di non volere invadere l’Ucraina, salvo poi passare all’atto? Siamo certi che questa perfettamente legittima richiesta da parte dei due Paesi scandinavi (per altro già molto ben armati) non getti nuova benzina sul fuoco del conflitto che da tre mesi dilania l’Ucraina?

Nel frattempo nel Donbass e non solo la guerra entra in una nuova fase: da una guerra difensiva potrebbe diventare offensiva. Dall’Occidente arrivano altre armi e più pesanti che potrebbero essere usate anche per contrattaccare in territorio russo. Quante altre persone devono ancora morire perché si arrivi a un tavolo di negoziato? Come uscire da questa spirale di violenza che non potrà che portare ancora più strazio, morte e distruzione? La questione del cessate il fuoco sembra del tutto sparita dalle agende. Tace l’iniziativa europea per un negoziato che abbiamo sempre chiesto con forza.

Non si parla più di ritorno alla conferenza di Helsinki del 1975 che fu un pilastro nella costruzione della pace. E la Helsinki di oggi addirittura rinnega la propria lunga storia di neutralità. Ad annunciarlo è stata la sua giovane premier progressista Senna Marin, seguita a ruota dalla collega svedese, Magdalena Andersson. Ci avevano colpito, lo scorso marzo, le immagini che la ritraevano con casco e mimetica alla guida di un carro armato durante una esercitazione della Nato.

Sì certo, benché non aderenti alla Alleanza atlantica i due Paesi avevano sempre collaborato. Ma ora quelle immagini assumono un nuovo significato e una luce assai più inquietante. Fanno balenare la paura di una nuova escalation, di un allargamento del conflitto. Oltre a una immensa tristezza – come approfondisce Monica Quirico su Left – nel veder così gettare alle ortiche la lezione di Olof Palme, padre della “neutralità attiva” della Svezia, che pagò con la vita, probabilmente, la sua battaglia contro i trafficanti di armi.

Duole dirlo, ma di politici progressisti e di rango come lui che lavorino per la pace non se ne vedono oggi. Neanche in Europa. Tornano alla mente le parole del cancelliere socialdemocratico Scholz, «il pacifismo è superato» e il salto di paradigma che con lui alla guida del governo ha compiuto la Germania aumentando di 100 miliardi le spese militari.

Tornano in mente le parole dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e membro del Psoe, Joseph Borrel, che già settimane fa aveva detto che non era tempo di dialogo e che la guerra si doveva consumare fino in fondo sul campo.

Colpisce che nel momento in cui il presidente Zelensky ha avanzato timide aperture sul negoziato, lasciando intendere di essere disposto a mettere da parte la questione della Crimea, il presidente della Nato Stoltenberg lo abbia rintuzzato dicendo in sostanza “non se ne parla” (al di là dei distinguo filologici). Ora il capo della Nato incita l’Ucraina alla vittoria sul campo. Facendo eco al presidente Biden, alla sua escalation militare e semantica, come se l’obiettivo non fosse fermare la guerra ma un cambio di regime in Russia. Cambio di regime, che come abbiamo scritto tante volte, sarebbe assai auspicabile se giungesse del basso, da una iniziativa democratica e popolare. Ma se imposto in un’ottica di “esportazione della democrazia” non potrebbe che far danni come già abbiamo visto in Iraq, in Afghanistan, in Kosovo e in molti altri Paesi dove la Nato è intervenuta rispondendo al comando Usa.

In questo quadro “esultare”, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri Di Maio, per la richiesta di ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, in momento delicatissimo come quello che stiamo attraversando ci pare a dir poco inopportuno. Di Maio più atlantista di Draghi. Il che è tutto dire. È grave che un nuovo voto del Parlamento sull’invio delle armi non ci sia stato. Mentre si prospetta un allargamento della Nato e un innalzamento dello scontro internazionale, quella larga parte del Paese che non vuole la guerra e l’invio delle armi resta inascoltata e, di fatto, senza rappresentanza.

* In foto, il primo ministro svedese Magdalena Andersson alla esercitazione militare internazionale Cold response. Narvik, Norvegia, 21 marzo 2022

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Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.