Partiamo dall’abc. La separazione dei poteri (o divisione dei poteri), nela giurisprudenza, è uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale. Montesquieu, il filosofo a cui viene tradizionalmente attribuita la moderna teoria della separazione dei poteri, ne Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, sosteneva che «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti …. Perché non si possa abusare del potere occorre che … il potere arresti il potere». Dunque i tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato – legislativo, esecutivo e giudiziario – non solo devono essere separati tra di loro, non potendosi accentrare nella medesima persona o organo, più funzioni (o poteri) tra quelli descritti, ma ognuno di loro deve fungere da limite all’altro. Posto ciò, qualcuno potrebbe accettare che un membro del governo possa prendere parte (o, addirittura, contribuire materialmente) ad una sentenza emessa da un magistrato? Ovviamente no. Però, finora, si è accettato tranquillamente che circa 200 magistrati siano distaccati presso l’esecutivo (i cosiddetti “fuori ruolo”), unico Paese al mondo dove membri del potere giudiziario contribuiscono all’esercizio del potere esecutivo. Il sostenere che siano dei meri “tecnici” è semplicemente risibile e ritengo che le recenti vicende, rivelatrici della naturale vocazione politica anche in chi esercita il potere giudiziario, possano aver fugato, definitivamente, una simile argomentazione.
Ma la separazione dei poteri, con l’omologo corollario del limite all’esercizio del potere stesso, è un…
* L’autrice: Valentina Angeli è avvocato penalista del Foro di Roma
In foto, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, ospite a “Porta a Porta” su Rai Uno
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