I luoghi di confinamento, reali e culturali, in cui sono state costrette a vivere in Italia le popolazioni rom, sinti e camminanti. E il rapporto con gli “autoctoni” segnato da stereotipi, sfruttamento e ignoranza. Ne parla Sergio Bontempelli nel suo nuovo libro

La prima immagine produce un effetto di straniamento. È quella del Cinegiornale dell’Istituto Luce, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco le frasi del servizio: «La guerra è passata e gli zingari tornano a circolare per l’Europa: piccolo e fausto segno del faticoso e lentissimo riassestamento della nostra società». Le carovane di quelli che allora erano chiamati semplicemente “zingari”, rappresentavano il ritorno alla normalità. Il percorso di ricostruzione di oltre 70 anni di presenza in Italia di rom, sinti e camminanti, realizzato da Sergio Bontempelli nel volume appena uscito I rom, una storia, (Carocci), prende spunto dalle parole del Cinegiornale e trascina chi legge in un testo accurato, capace di entrare nella complessità delle vicende raccontate senza ideologie di supporto. L’editore ha pubblicato questo saggio nella collana diretta da Michele Colucci (storico e ricercatore del Cnr), “Nodi dell’Italia repubblicana”, con la scelta di non circoscrivere le vicende delle comunità rom in un mondo a parte, ma di farle precipitare nella storia comune e condivisa. Non si separa, non si “etnicizza” un contesto, neanche per evidenziarne aspetti romantici o positivi o per alimentare il mito dei “figli del vento” che tanti danni ha prodotto.

L’operazione di Bontempelli è quella di riuscire a problematizzare senza astrarre, di raccontare senza alimentare stereotipi. Permette di non cadere nei tranelli tipici della nostra cultura coloniale. Così come non è mai stato realmente possibile censire numericamente le popolazioni che si definiscono rom, sinti e camminanti, non è sistematizzabile l’idea di costruire attorno a loro identità statiche senza trasformarle in gabbie, illusorie e fuorvianti, attraverso cui costruire l’immagine dell’altro, come forma di esclusione e separazione. Sono due assi strutturali del libro. Le gabbie non sono solo metaforiche, negli anni sono diventate “campi”, spesso recintati e vigilati, situati ai margini delle città. Luoghi di confinamento che per loro natura impediscono percorsi di convivenza con i “non rom”. La marginalizzazione si è accentuata fino ai giorni nostri, limitando l’accesso ai servizi basilari, dall’acqua alla sanità e all’istruzione e lo steccato si alza contribuendo a creare pregiudizi reciproci. Questo nasce, a detta dell’autore, intanto da una «lacuna conoscitiva». Chi identifichiamo come rom, oggi che il nomadismo è pressoché scomparso? Prendiamo come riferimento una lingua, parlata soprattutto da chi è giunto in Italia negli ultimi decenni? La prima realtà che…

L’articolo prosegue su Left del 3 giugno 2022 

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