Fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, oltre alla feroce guerra guerreggiata ingaggiata da Putin che ha fatto e continua a fare centinaia di vittime ogni giorno, tre tipi di conflitti si sono intrecciati: quello del gas e del petrolio, quello del grano e quello cibernetico. Delle tre guerre, sul piano economico e umanitario, quella del grano rischia di diventare a breve la più devastante, perché quello che accade in Ucraina produce un effetto domino, a lunga gittata, in Medio Oriente e in Africa, in Paesi già alle prese con siccità e fame, che non sono mai entrati in questo conflitto, inviando armi o in altro modo, ma ingiustamente ne patiscono tutte le conseguenze a causa del grano bloccato nei porti ucraini, a causa dei prezzi dei fertilizzanti e del carburante schizzati alle stelle. «I Paesi africani sono vittime collaterali di questa guerra», ha detto il presidente dell’Unione africana, nonché presidente del Senegal, Macky Sall, rivolgendosi all’Unione europea, anche se l’Europa appare sorda e distante a gran parte dei Paesi africani che hanno avuto modo di saggiarne l’egoismo durante la pandemia con le partite di vaccini praticamente scadute e le licenze dei brevetti mai liberalizzate. Il presidente dell’Unione africana si è anche recato a Sochi per incontrare Putin. La Russia è fra i primi produttori di grano al mondo e diversi Paesi dipendono dalle sue esportazioni fino al 100%. È il caso della Mongolia, della Georgia e del Kazakistan ma anche, seppur in misura minore, della Turchia, del Libano, della Tunisia e di altri Paesi africani alcuni dei quali - come Sudan, Mali e Repubblica Centroafricana - hanno anche richiesto l’intervento dei contractors russi della famigerata Wagner in conflitti locali. Il fatto che molti Paesi africani siano legati a doppio filo alla Russia spiega plasticamente la geografia della loro astensione in sede Onu e della loro contrarietà a sanzionare il regime di Putin. Lo scenario globale che si prospetta è a dir poco complicato. Mosca da un lato ricatta chi da lei dipende per l’approvvigionamento alimentare e dall’altro colpisce l’Ucraina, anche tenendone in ostaggio i raccolti, lasciandoli deperire nei silos, distruggendoli deliberatamente, saccheggiandoli. Se il gatto Putin cinicamente affama mezzo mondo, la volpe Erdoğan a sua volta ci guadagna tenendo i piedi in due staffe: quella della Nato e quella della alleanza con la Russia. Il «dittatore necessario» (parole di Draghi) da arbitro del Bosforo (in virtù della convenzione di Montreux del 1936) dopo aver lasciato passare le navi russe cariche di grano ucraino rubato, ora si accredita come mentore di corridoi umanitari di cereali dall’Ucraina via Bosforo e Dardanelli chiedendo che si dirigano le operazioni da Istanbul. La Russia usa la leva alimentare anche per destabilizzare, per creare quei nuovi flussi di profughi dall’Africa che l’Europa teme massimamente. E il presidente turco, che già ha ricevuto fiumi di soldi dalla Ue per impedire che arrivino in Europa, già si frega le mani. Abbiamo approfondito questo complesso quadro geopolitico e questa esplosiva crisi umanitaria con l’africanista dell’Ispi Lucia Ragazzi, con lo storico Alessandro Volpi dell’Università di Pisa, con il vice direttore della Fao Maurizio Martina, con Monica Di Sisto vicepresidente di Fairwatch e con le ricercatrici Jessica Antonisse e Antonia Kuhn che insieme ad altri loro colleghi hanno dato vita al G7 dei giovani avanzando proposte concrete. Lo abbiamo fatto in questa nuova copertina di Left denunciando le responsabilità di autocrati come Putin e Erdoğan (che intanto torna a invadere i territori curdi in Siria e in Iraq) ma anche cercando di comprendere quali sono le concause di questo tragico scenario di carestia e fame, che sta mettendo in ginocchio il Sud del mondo. A cominciare dalla speculazione finanziaria di chi lucra sul conflitto. Non è stato solo il blocco dell’export dall’Ucraina a determinare l’impennata dei prezzi. Le multinazionali dei cereali, molte delle quali sono statunitensi, hanno tutto l’interesse a tenere alto il costo del grano. Negli Usa e in Europa, avverte Volpi, non mancherebbero le capacità produttive per supplire alle carenze attuali ma «spesso sono inutilizzate per tenere alti i prezzi, che ora sono drogati dalla finanziarizzazione». Lo stesso Wto potrebbe intervenire immettendo sul mercato grano per abbassarne e governare il prezzo derogando da una impostazione liberista. Dal 12 al 15 giugno a Ginevra si terrà la conferenza interministeriale, batterà un colpo? Non nutriamo molta speranza. Anche Cina e India, grandi produttori di grano, potrebbero intervenire. Ma al momento entrambi i Paesi hanno bloccato le esportazioni per rispondere a crisi interne. E si ritorna al punto di partenza: il problema come scrive George Monbiot sul Guardian «è che solo 4 società al mondo controllano il 90% del commercio dei cereali a livello globale». E nel mondo si è diffusa sempre più una dieta global standard basata su grano, riso, mais e soia. Occorre dunque spezzare la morsa della speculazione finanziaria, ma al contempo è necessario e urgente diversificare la produzione alimentare. Oggi 811 milioni di persone soffrono la fame. Siamo tornati al livello del 2005. Occorre dunque fermare la guerra in Ucraina ma anche indagare e risolvere i problemi che attanagliano, e non da ora, la produzione alimentare globale, basata su modelli di produzione, di commercio e di finanza niente affatto equi e rispettosi dell’ambiente.
L'editoriale è tratto da Left del 10 giugno 2022 
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Fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, oltre alla feroce guerra guerreggiata ingaggiata da Putin che ha fatto e continua a fare centinaia di vittime ogni giorno, tre tipi di conflitti si sono intrecciati: quello del gas e del petrolio, quello del grano e quello cibernetico. Delle tre guerre, sul piano economico e umanitario, quella del grano rischia di diventare a breve la più devastante, perché quello che accade in Ucraina produce un effetto domino, a lunga gittata, in Medio Oriente e in Africa, in Paesi già alle prese con siccità e fame, che non sono mai entrati in questo conflitto, inviando armi o in altro modo, ma ingiustamente ne patiscono tutte le conseguenze a causa del grano bloccato nei porti ucraini, a causa dei prezzi dei fertilizzanti e del carburante schizzati alle stelle.
«I Paesi africani sono vittime collaterali di questa guerra», ha detto il presidente dell’Unione africana, nonché presidente del Senegal, Macky Sall, rivolgendosi all’Unione europea, anche se l’Europa appare sorda e distante a gran parte dei Paesi africani che hanno avuto modo di saggiarne l’egoismo durante la pandemia con le partite di vaccini praticamente scadute e le licenze dei brevetti mai liberalizzate.

Il presidente dell’Unione africana si è anche recato a Sochi per incontrare Putin. La Russia è fra i primi produttori di grano al mondo e diversi Paesi dipendono dalle sue esportazioni fino al 100%. È il caso della Mongolia, della Georgia e del Kazakistan ma anche, seppur in misura minore, della Turchia, del Libano, della Tunisia e di altri Paesi africani alcuni dei quali – come Sudan, Mali e Repubblica Centroafricana – hanno anche richiesto l’intervento dei contractors russi della famigerata Wagner in conflitti locali. Il fatto che molti Paesi africani siano legati a doppio filo alla Russia spiega plasticamente la geografia della loro astensione in sede Onu e della loro contrarietà a sanzionare il regime di Putin.

Lo scenario globale che si prospetta è a dir poco complicato. Mosca da un lato ricatta chi da lei dipende per l’approvvigionamento alimentare e dall’altro colpisce l’Ucraina, anche tenendone in ostaggio i raccolti, lasciandoli deperire nei silos, distruggendoli deliberatamente, saccheggiandoli. Se il gatto Putin cinicamente affama mezzo mondo, la volpe Erdoğan a sua volta ci guadagna tenendo i piedi in due staffe: quella della Nato e quella della alleanza con la Russia. Il «dittatore necessario» (parole di Draghi) da arbitro del Bosforo (in virtù della convenzione di Montreux del 1936) dopo aver lasciato passare le navi russe cariche di grano ucraino rubato, ora si accredita come mentore di corridoi umanitari di cereali dall’Ucraina via Bosforo e Dardanelli chiedendo che si dirigano le operazioni da Istanbul.

La Russia usa la leva alimentare anche per destabilizzare, per creare quei nuovi flussi di profughi dall’Africa che l’Europa teme massimamente. E il presidente turco, che già ha ricevuto fiumi di soldi dalla Ue per impedire che arrivino in Europa, già si frega le mani.
Abbiamo approfondito questo complesso quadro geopolitico e questa esplosiva crisi umanitaria con l’africanista dell’Ispi Lucia Ragazzi, con lo storico Alessandro Volpi dell’Università di Pisa, con il vice direttore della Fao Maurizio Martina, con Monica Di Sisto vicepresidente di Fairwatch e con le ricercatrici Jessica Antonisse e Antonia Kuhn che insieme ad altri loro colleghi hanno dato vita al G7 dei giovani avanzando proposte concrete. Lo abbiamo fatto in questa nuova copertina di Left denunciando le responsabilità di autocrati come Putin e Erdoğan (che intanto torna a invadere i territori curdi in Siria e in Iraq) ma anche cercando di comprendere quali sono le concause di questo tragico scenario di carestia e fame, che sta mettendo in ginocchio il Sud del mondo. A cominciare dalla speculazione finanziaria di chi lucra sul conflitto.

Non è stato solo il blocco dell’export dall’Ucraina a determinare l’impennata dei prezzi. Le multinazionali dei cereali, molte delle quali sono statunitensi, hanno tutto l’interesse a tenere alto il costo del grano. Negli Usa e in Europa, avverte Volpi, non mancherebbero le capacità produttive per supplire alle carenze attuali ma «spesso sono inutilizzate per tenere alti i prezzi, che ora sono drogati dalla finanziarizzazione». Lo stesso Wto potrebbe intervenire immettendo sul mercato grano per abbassarne e governare il prezzo derogando da una impostazione liberista. Dal 12 al 15 giugno a Ginevra si terrà la conferenza interministeriale, batterà un colpo? Non nutriamo molta speranza. Anche Cina e India, grandi produttori di grano, potrebbero intervenire. Ma al momento entrambi i Paesi hanno bloccato le esportazioni per rispondere a crisi interne.

E si ritorna al punto di partenza: il problema come scrive George Monbiot sul Guardian «è che solo 4 società al mondo controllano il 90% del commercio dei cereali a livello globale».
E nel mondo si è diffusa sempre più una dieta global standard basata su grano, riso, mais e soia. Occorre dunque spezzare la morsa della speculazione finanziaria, ma al contempo è necessario e urgente diversificare la produzione alimentare. Oggi 811 milioni di persone soffrono la fame. Siamo tornati al livello del 2005. Occorre dunque fermare la guerra in Ucraina ma anche indagare e risolvere i problemi che attanagliano, e non da ora, la produzione alimentare globale, basata su modelli di produzione, di commercio e di finanza niente affatto equi e rispettosi dell’ambiente.

L’editoriale è tratto da Left del 10 giugno 2022 

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Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.