“Con tutti i problemi degli italiani che non arrivano a fine mese, dobbiamo pensare agli immigrati?”. Questa è la frase che come un mantra, tutta la destra, con odio, ripete ogni qualvolta un giornalista chiede loro un commento sulla legge di cittadinanza. Sono decenni che usano questa scusa per negare diritti sacrosanti a giovani che in questa Italia ci sono nati o ci sono arrivati da piccolissimi. Stiamo parlando di quasi un milione e mezzo di ragazzi e di ragazze che a stento conoscono la lingua dei loro genitori, che invece parlano i dialetti delle città in cui vivono, che dicono “ti amo” in italiano e mangiano la pizza e gli spaghetti col parmigiano (citazione da Tommy Kuti). A loro, che sono gli amici dei nostri figli, i loro compagni di banco, il futuro di questo Paese, hanno strappato via non solo la dignità ma anche il senso di appartenenza. Spesso mi chiedono: “Da dove può iniziare il nostro Paese per diffondere una vera cultura antirazzista?”. La mia risposta è sempre la stessa: “Da una vera legge di cittadinanza. Perché se lo Stato riconoscerà come suoi figli tutti questi giovani, sarà naturale e normale farlo, anche per la società civile. Allora nessuno penserà più, vedendo un nero, che è uno straniero e che, in quanto nero, non può essere italiano. Il razzismo è cosi profondamente insito nella nostra cultura che solo una legge così potente potrebbe aiutare il lento processo di decolonizzazione culturale. Mia figlia ha 11 anni, è nata in Etiopia ed è di nazionalità italiana. Nel suo saggio di musical, con un ben noto teatro milanese, tutte e quattro le insegnanti hanno pensato bene di farla recitare con un accento inglese. L’unica nera sul palco, l’unica con un accento non italiano. Cosa voglio dire con questo piccolo esempio? Che l’Italia è ancora troppo bianco-centrica per poter anche solo immaginare che una ragazzina con il colore della pelle diverso dal bianco possa essere italiana. Questo accade a tutti i nostri figli, ogni giorno, quando vengono sistematicamente fermati dalle forze dell’ordine che invece di chiedere loro la carta d’identità, esigono il “permesso di soggiorno”, quando vengono seguiti in un negozio perché potrebbero rubare, quando gli servono al bar il caffè in una tazzina di plastica, quando le signore sull’autobus, vedendoli salire, si spostano e stringono al petto le borsette, quando gli sguardi li trafiggono come una lama tagliente. Queste micro aggressioni, che non sono “episodi rari” ma quotidianità, ci raccontano quanto sia pericoloso questo sentimento afrofobico che viene alimentato anche dallo Stato. Come? Mettendo in un angolo buio giovani vite che chiedono solo quello che gli spetta di diritto, essere considerati alla stregua dei loro compagni, con gli stessi diritti e le stesse opportunità. Negli anni, lo ius soli e lo ius culturae sono stati raccontati male e, in fondo, neanche la sinistra ci ha mai creduto. Si è arrivati a pensare che l’unico modo per diventare cittadini italiani fosse meritarselo. Se sei bravo nello sport, se eccelli in qualche attività, se salvi delle vite, invece della medaglia, ti do un bel premio: la cittadinanza. Per questo motivo, un anno fa, la mia associazione, Mamme per la pelle, insieme all’avvocato Hillary Sedu e ad Amin Nour ha pensato di scrivere una nuova legge che potesse accontentare tutti i partiti, proprio perché questa non fosse una lotta politica ma di civiltà. Dopo mesi di studio, è stato scritto lo ius scholae, che abbiamo presentato a molti partiti e che il deputato Giuseppe Brescia ha sposato in pieno e fatto suo. Ottenere la cittadinanza alla fine della terza media, per chi è nato qui o è arrivato da piccolo. Questo perché la scuola è il primo luogo che cerca disperatamente di includere e perché la cultura è diritto di tutti. Il 24 giugno verrà discussa in Parlamento, dopo vari rinvii e dopo centinaia di stupidi emendamenti scritti dalla destra, forse durante una cena molto alcolica. I più divertenti? Quelli che, come requisito per la cittadinanza, richiedevano il conoscere i santi patroni, le ricette regionali, le sagre di paese. Sappiamo da chi e come sarà osteggiata la norma ma vorrei fare un appello a tutte quelle forze politiche che credono ancora nell’essere umano e nella giustizia. A tutte quelle forze politiche che sanno che non stiamo parlando di immigrazione, di “barconi”, di “cittadinanza facile per tutti”. Questa legge non toglierà nulla a nessuno di noi, neanche a quegli italiani “che non arrivano a fine mese”, darà solo diritti, orgoglio e dignità a tutti quei bambini nati o arrivati qui in età prescolare, che sognano sin da piccoli di poter gridare forte quello che sono e che sentono già nel cuore: “Io sono Italiano”! Gabriella Nobile è scrittrice, attivista e fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle
L'editoriale è tratto da Left del 24 giugno 2022 
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“Con tutti i problemi degli italiani che non arrivano a fine mese, dobbiamo pensare agli immigrati?”. Questa è la frase che come un mantra, tutta la destra, con odio, ripete ogni qualvolta un giornalista chiede loro un commento sulla legge di cittadinanza. Sono decenni che usano questa scusa per negare diritti sacrosanti a giovani che in questa Italia ci sono nati o ci sono arrivati da piccolissimi. Stiamo parlando di quasi un milione e mezzo di ragazzi e di ragazze che a stento conoscono la lingua dei loro genitori, che invece parlano i dialetti delle città in cui vivono, che dicono “ti amo” in italiano e mangiano la pizza e gli spaghetti col parmigiano (citazione da Tommy Kuti).
A loro, che sono gli amici dei nostri figli, i loro compagni di banco, il futuro di questo Paese, hanno strappato via non solo la dignità ma anche il senso di appartenenza. Spesso mi chiedono: “Da dove può iniziare il nostro Paese per diffondere una vera cultura antirazzista?”.
La mia risposta è sempre la stessa: “Da una vera legge di cittadinanza. Perché se lo Stato riconoscerà come suoi figli tutti questi giovani, sarà naturale e normale farlo, anche per la società civile. Allora nessuno penserà più, vedendo un nero, che è uno straniero e che, in quanto nero, non può essere italiano.
Il razzismo è cosi profondamente insito nella nostra cultura che solo una legge così potente potrebbe aiutare il lento processo di decolonizzazione culturale.
Mia figlia ha 11 anni, è nata in Etiopia ed è di nazionalità italiana. Nel suo saggio di musical, con un ben noto teatro milanese, tutte e quattro le insegnanti hanno pensato bene di farla recitare con un accento inglese. L’unica nera sul palco, l’unica con un accento non italiano.
Cosa voglio dire con questo piccolo esempio? Che l’Italia è ancora troppo bianco-centrica per poter anche solo immaginare che una ragazzina con il colore della pelle diverso dal bianco possa essere italiana.
Questo accade a tutti i nostri figli, ogni giorno, quando vengono sistematicamente fermati dalle forze dell’ordine che invece di chiedere loro la carta d’identità, esigono il “permesso di soggiorno”, quando vengono seguiti in un negozio perché potrebbero rubare, quando gli servono al bar il caffè in una tazzina di plastica, quando le signore sull’autobus, vedendoli salire, si spostano e stringono al petto le borsette, quando gli sguardi li trafiggono come una lama tagliente.
Queste micro aggressioni, che non sono “episodi rari” ma quotidianità, ci raccontano quanto sia pericoloso questo sentimento afrofobico che viene alimentato anche dallo Stato. Come? Mettendo in un angolo buio giovani vite che chiedono solo quello che gli spetta di diritto, essere considerati alla stregua dei loro compagni, con gli stessi diritti e le stesse opportunità.
Negli anni, lo ius soli e lo ius culturae sono stati raccontati male e, in fondo, neanche la sinistra ci ha mai creduto. Si è arrivati a pensare che l’unico modo per diventare cittadini italiani fosse meritarselo. Se sei bravo nello sport, se eccelli in qualche attività, se salvi delle vite, invece della medaglia, ti do un bel premio: la cittadinanza.
Per questo motivo, un anno fa, la mia associazione, Mamme per la pelle, insieme all’avvocato Hillary Sedu e ad Amin Nour ha pensato di scrivere una nuova legge che potesse accontentare tutti i partiti, proprio perché questa non fosse una lotta politica ma di civiltà. Dopo mesi di studio, è stato scritto lo ius scholae, che abbiamo presentato a molti partiti e che il deputato Giuseppe Brescia ha sposato in pieno e fatto suo. Ottenere la cittadinanza alla fine della terza media, per chi è nato qui o è arrivato da piccolo. Questo perché la scuola è il primo luogo che cerca disperatamente di includere e perché la cultura è diritto di tutti.
Il 24 giugno verrà discussa in Parlamento, dopo vari rinvii e dopo centinaia di stupidi emendamenti scritti dalla destra, forse durante una cena molto alcolica. I più divertenti? Quelli che, come requisito per la cittadinanza, richiedevano il conoscere i santi patroni, le ricette regionali, le sagre di paese.
Sappiamo da chi e come sarà osteggiata la norma ma vorrei fare un appello a tutte quelle forze politiche che credono ancora nell’essere umano e nella giustizia.
A tutte quelle forze politiche che sanno che non stiamo parlando di immigrazione, di “barconi”, di “cittadinanza facile per tutti”.
Questa legge non toglierà nulla a nessuno di noi, neanche a quegli italiani “che non arrivano a fine mese”, darà solo diritti, orgoglio e dignità a tutti quei bambini nati o arrivati qui in età prescolare, che sognano sin da piccoli di poter gridare forte quello che sono e che sentono già nel cuore: “Io sono Italiano”!

Gabriella Nobile è scrittrice, attivista e fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle

L’editoriale è tratto da Left del 24 giugno 2022 

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