Per ricordare un grandissimo scrittore, Raffaele La Capria, riproponiamo la toccante Introduzione a me stesso, brano della conferenza che lo scrittore tenne alla Sorbonne di Parigi il 28 novembre 2003. Lo pubblichiamo ringraziando la casa editrice Elliot che nel 2014 ci permise di pubblicarla su Left.
Il mio poetico litigio con Napoli
di Raffaele La Capria
Per uno scrittore nascere a Napoli comporta sempre un pedaggio da pagare. Io, per esempio, ho scritto più d’una dozzina di libri, di questi alcuni – come Ferito a morte o L’armonia perduta – avevano Napoli come tema centrale, ma gli altri erano saggi che parlavano d’altro, parlavano di Letteratura, parlavano del “senso comune” come difesa dal dilagare delle astrazioni, parlavano dei libri e del modo di leggere i libri, parlavano dell’Italia e delle sue anomalie che si riflettono anche nella letteratura. Tutti questi miei libri sono ora raccolti in volumi dei Meridiani – una collezione simile alla Pléiade – e visti tutti insieme fanno capire meglio il senso e il significato del mio percorso di scrittore, e fanno capire meglio che ogni singolo libro, inserito nel contesto degli altri, assume un diverso valore. E anche tutto quello che ho scritto su Napoli, dunque, collocato nell’insieme della mia opera, può essere considerato adesso in una luce diversa.
Dico tutto questo perché uno scrittore per il semplice fatto di essere nato a Napoli viene definito “scrittore napoletano”, e l’aggettivo napoletano gli viene imposto come un marchio di fabbrica, tutto quello che scrive è made in Naples. Io però dico – senza voler nulla rinnegare della mia identità – che i miei libri, anche quando parlano di Napoli, parlano prima di se stessi, cioè di come sono scritti, e poi di Napoli. Dico che una cosa è parlare di Napoli e un’altra cosa è essere parlati da Napoli. Io ho la pretesa nei miei libri di aver parlato di Napoli e non di essere stato parlato da Napoli, anche se senza la mia identità napoletana e il mio “poetico litigio” con la città, forse quei libri non li avrei mai scritti. Dunque non è l’argomento Napoli che definisce un libro, ma l’operazione letteraria messa in atto, il linguaggio, la costruzione, lo stile, e così via. Per uno scrittore napoletano però è quasi impossibile venir considerato, come tutti, uno scrittore e basta. Lo si deve sempre mettere in un angolo: scrittore sei, te lo concediamo, ma napoletano. Se si parla di Calvino non si aggiunge subito “scrittore ligure”. Se si parla di Moravia, non si aggiunge subito “scrittore romano”. E non lo si fa perché si riconosce come valore primo quello che hanno scritto, cioè i loro romanzi. Ecco, io vorrei lo stesso trattamento. Lo dico anche perché se sei uno scrittore napoletano finisci sempre intruppato con gli altri scrittori napoletani. Di notte, dice il proverbio, tutti i gatti sono grigi. E gli scrittori napoletani sono come i gatti, hanno tutti lo stesso colore, si confondono insomma tutti e sono tutti uguali nella notte napoletana. Ma per uno scrittore quel che conta è la differenza.
Tutto il suo lavoro è fatto per crearsi una sia pur piccola differenza che lo faccia riconoscere immediatamente per quello che è, per il suo stile, per la sua musica particolare. E visto che prima ho parlato di gatti, anche lo scrittore, come il gatto, vuole segnare il suo territorio. In uno dei saggi che ho scritto, Il sentimento della letteratura, c’è un capitolo dal titolo “quella piccola differenza”. Per quanto piccola, quella differenza per uno scrittore è tutto, perché lì è la sua “originalità”. Non è facile conquistare questa originalità, ma, ammesso che lo scrittore sia riuscito a conquistarla, è altrettanto importante che gli venga riconosciuta. E a uno scrittore napoletano questo non sempre accade. Io ammiro e rispetto Domenico Rea, ma non voglio essere confuso con Rea solo perché entrambi siamo nati a Napoli. Così non voglio essere confuso con la Ortese o con Prisco o con chiunque altro. E invece, un po’ per pigrizia un po’ per la tiepida corrente omologante che tutti ci trascina, si preferisce annegare ogni differenza nelle acque del Golfo di Napoli.
Ricordate Shakespeare? «Non è grande chi per una grande causa prende le armi, ma chi per una pagliuzza è capace di sollevare il mondo». Quella pagliuzza che mette in gioco l’onore è, per uno scrittore, la sua piccola differenza.
Questa premessa era necessaria per parlare del mio romanzo Ferito a morte, e voglio subito accennare rapidamente alla sua piccola differenza, a ciò che lo fa diverso dagli altri romanzi scritti a Napoli nello stesso periodo di tempo. La prima differenza sta nel fatto che Ferito a morte ha tenuto in conto, e ha fatto i conti, con la letteratura del Novecento, cioè con quella rivoluzione formale del romanzo che sta tutta nella sua costruzione, o meglio nella sua struttura simbolica. Che cosa intendo con struttura simbolica? Intendo quella disposizione figurata delle varie parti di un romanzo e dei vari elementi della narrazione capace di irradiare energia nel linguaggio e mettere in atto contemporaneamente più possibilità di significati, di diventare, al di là della trama e dei personaggi, il vero contenuto del racconto. Nei Faux monnayeurs André Gide ha spiegato bene l’importanza della struttura del romanzo novecentesco, e se pensate alla Recherche di Proust o ai romanzi di Virginia Woolf, di Joyce, di Faulkner e a come sono costruiti, e come la loro struttura sia importante per determinare la scrittura e per dare al tutto un significato ulteriore che va al di là di ciò che è esplicitamente scritto, e al di là del significato letterale, capirete meglio cosa voglio dire quando parlo di struttura simbolica e di rivoluzione formale del romanzo novecentesco.
Fanno parte di questo romanzo l’applicazione di tecniche narrative come il flusso di coscienza o monologo interiore, la concezione del tempo sincronica invece che diacronica, la polifonia, la minore importanza della psicologia o della trama, o del personaggio, perché appunto è il contesto che prevale, e cioè la struttura e il linguaggio. Quando Camus scrisse L’étranger, aveva capito bene come dalla costruzione e soltanto dalla costruzione del suo romanzo poteva venir fuori il vero suo significato. Infatti nella prima parte la descrizione della realtà vista da Meursault dà luogo a un linguaggio fatto di frasi brevi e staccate, ognuna indipendente dall’altra e ognuna equivalente, così come erano equivalenti tutti i momenti della sua vita immersi nell’immediatezza di un presente per lui vuoto e ingiustificabile. Naturalmente qui tutti i verbi sono al presente indicativo, un presente immediato e fuggevole. Nella seconda parte vediamo la ricomposizione di quella stessa realtà ma dal punto di vista dei giudici e dei testimoni in tribunale, e qui la sintassi cambia, ci sono frasi che rispettano l’ordine, le connessioni e le motivazioni normalmente accettate dalle persone comuni. Ed è questa differenza di linguaggio a far risaltare e a rendere immediatamente percepibile l’estraneità dello “straniero” Mersault e la distanza che lo separa dagli altri. Da lì verrà, senza bisogno di altra spiegazione, il sentimento dell’assurdo. Vedete bene come qui la struttura simbolica del libro non solo ne determina il linguaggio e dunque influisce sulla scrittura, ma diventa il suo vero contenuto. In qualsiasi altra maniera più esplicita si fosse detto, mai un lettore avrebbe percepito con più forza il senso dell’assurdo che il romanzo voleva trasmettergli. Una cosa simile ho fatto io nel mio libro Ferito a morte. Qui io ho sottratto al soggetto, al protagonista Massimo, la sua complessità e l’ho trasferita nella struttura del romanzo, in modo che questa parlasse per lui e facesse comprendere la sua condizione in mezzo agli altri (…).