Le immagini delle operazioni militari dell’Italia umbertina in Africa hanno costruito una narrazione basata su stereotipi razzisti e atti “eroici” fatta propria in seguito dal fascismo. La rilettura che ne fa il nuovo libro di Carmen Belmonte è un contributo anche per comprendere il presente

Se Firenze avesse davvero voluto farci riflettere per immagini sui grandi processi del nostro tempo non avrebbe messo in vetrina, a Palazzo Vecchio, Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e La pace di Antonio Canova. Con il pretesto di rappresentare i diritti dei lavoratori e il conflitto in Ucraina (il marmo originale di Canova è infatti a Kiev; il gesso a Possagno, dove comunque potevamo andarcelo a vedere senza problemi), è andata infatti in scena l’ennesima strumentalizzazione di capolavori sviliti della potenza eversiva del loro linguaggio e degradati a pretesti di merchandising da una politica incapace di affrontare le crisi con la cognizione che esse richiedono. Eppure tutti sappiamo quanto ci sia bisogno di immagini forti, in questi momenti. Ma soprattutto abbiamo bisogno di capire quel che stiamo guardando, e poi di capire il mondo attraverso quelle opere. Soprattutto se sono opere pubbliche, condivise, inclusive. Se stanno nelle piazze come nei musei. E ci permettono di coltivare cittadinanza e civiltà. Se davvero avesse voluto, Firenze avrebbe costruito un’altra narrazione intorno a quelle opere. Oppure ne avrebbe scelta un’altra, per giunta di un artista toscano, Giovanni Fattori. Un dipinto problematico, difficile, anche misterioso. Che però denuncia le contraddizioni del colonialismo italiano e la presunzione dell’Occidente nel momento stesso del loro farsi: l’Episodio della battaglia di Kassala (1906), ora alla Galleria d’arte moderna di Novara. E per questo ci offre uno sguardo alternativo su scontri di civiltà e superiorità di modelli culturali. Ma per guadagnarlo ci serve la ricerca, non la vetrina.

Per ragionare su questi temi (tanto che il dipinto di Fattori ne è punto d’arrivo) molti stimoli vengono ora da un volume di Carmen Belmonte, Arte e colonialismo in Italia, ottimamente illustrato e montato da Marsilio per la collana di saggi del Kunsthistorisches Institut di Firenze. Belmonte lavora da anni sull’argomento, tanto da essere diventata, malgrado la giovane età, una specialista internazionale delle ricadute figurative del colonialismo. La sua acribia metodologica, abile a leggere storicamente i documenti figurativi, restituisce alla storia dell’arte un profilo propositivo e non certo ancillare della storia politica. La chiave di lettura è tutta nel sottotitolo, che inquadra quel che nel titolo potrebbe sembrare temerario: Oggetti, immagini, migrazioni (1882-1906). Sotto la lente sono infatti gli anni in cui si costruisce un’immagine dell’avventura coloniale italiana, fitta di stereotipi razzisti da un lato ed eroici dall’altro, che frutterà in seguito alimentando dapprima il discorso pubblico sull’invasione della Libia e la sua successiva riconquista, e poi la guerra di aggressione fascista in Etiopia con i suoi strascichi, che ancora non si…

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