Il Parco degli acquedotti all’Appio Claudio a Roma è un luogo speciale. Qui fino agli anni Settanta esistevano baracche addossate alle costruzioni romane e abitate dagli immigrati italiani arrivati nella Capitale e qui si sono svolte molte delle storie che Ascanio Celestini ha raccontato in Museo Pasolini, lo spettacolo ideato in occasione del centenario della nascita dello scrittore friulano. Un lavoro che ha debuttato a novembre scorso e che l’artista porterà nella tournée estiva in Italia: il 6 agosto a Jerzu (Nuoro), il 31 agosto a La Morra (Cuneo) , il 2 settembre a Trento e poi in altri luoghi. È prevista più avanti anche una tappa europea a Londra. Museo Pasolini è stato trasmesso anche dalla Rai.
Incontriamo Ascanio Celestini in occasione dello spettacolo che si è svolto il 28 e 29 luglio nell’ambito dell’Estate romana al Parco degli acquedotti. Ascoltarlo e vederlo in scena significa provare l’impressione di essere di fronte a un mondo reale, ma sempre imprevedibile. Un mondo ricco di storie da ascoltare, per le quali Celestini è indispensabile per poterle acquisire nell’unica maniera poetica, e al contempo, democratica e profondissima.
Ascanio Celestini, quando ti sei accorto che volevi fare questo mestiere?
L’ho capito quando ho cominciato a studiare all’università, nel momento in cui ho pensato che per fare politica non bastava partecipare alle riunioni del partito – quando ero ragazzo io esisteva ancora il Pci -, ma che occorresse partecipare alla vita pubblica. Ho capito allora che potevo trovare una maniera per esprimermi attraverso il mio lavoro. Che è quello di scrivere storie, e quindi ho pensato che questo sarebbe stato il modo attraverso il quale avrei potuto partecipare alla vita pubblica.
Quindi credi in un teatro politico?
Io non credo che il teatro sia più importante se è un teatro impegnato, cioè se chi fa teatro lo fa con un fine politico, però, per me, come artista, lo è. Anche se non esprimo alcun giudizio nei confronti di chi porta in scena, per esempio, Goldoni solo perché è divertente, magari ce ne fossero…
La cultura permette di conoscere le idee e le ideologie, quindi porta a pensare…
Sì, quello che dici tu infatti è centrale. È fondamentale studiare: quando fai questo mestiere studi e prendi coscienza che ha un senso andare sul palco e portare sul palco dei contenuti importanti.
Il tuo spettacolo sta ottenendo molto successo, ci puoi dire cosa ti ha spinto a scriverlo e portarlo in scena?
Io ho sempre letto i testi di Pasolini con una grande passione, perché ho sempre pensato che fosse uno scrittore importante da studiare, colui che raccontava le cose da sapere sulle classi subalterne, sui poveracci. In questo caso specifico, volevo raccontare cosa è accaduto nel Novecento e lui è lo “scrittore” del Novecento.
Il rapporto che hai con Pasolini è anche un rapporto con la memoria?
Ti rispondo dicendo che vicino a quegli acquedotti romani ci sono state le baracche fino al 1974. E sono riuscito a fare delle interviste a quelli che ci hanno vissuto.
Come li hai rintracciati?
Beh, intanto quelli che erano dei ragazzini negli anni Settanta, ora hanno quasi settant’anni, è stato quindi facile incontrarli. Un pezzo del mio spettacolo Museo Pasolini parla proprio di loro. Inoltre alla biblioteca di Anagnina, c’è un archivio che può essere consultato e in cui sono raccolte le biografie e le informazioni relative a coloro che hanno vissuto nelle baracche e a Roberto Sardelli, il sacerdote e scrittore che nel 1968 decise di andare a vivere tra i baraccati dell’Appio Claudio. Ecco, io semplicemente ho fatto questo: racconto storie, non è un lavoro particolarmente complicato.
Se tu dovessi analizzare come si sta procedendo per favorire la crescita culturale nel nostro Paese, quale fotografia faresti dell’attuale situazione? Cosa consigli agli addetti ai lavori nelle scuole, nelle associazioni, nelle istituzioni e dell’arte?
Sono tante domande contemporaneamente! Credo che in questo momento dovremmo capire quanto conoscere la storia rappresenti uno strumento importante, rispetto al quale abbiamo il dovere di organizzarci, altrimenti non capiamo come entrarci, nella storia. Quindi dobbiamo studiare, per esempio comprendere cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo o in America, o in Giappone. Dico sempre a mio figlio, che ha 15 anni, che dobbiamo studiare le lingue e quella che una volta veniva chiamata psicologia dei popoli. Insomma, dobbiamo prepararci, altrimenti non riusciamo ad avere una relazione con “l’altro”.
In questa relazione con “l’altro” si percepisce oggi una mancanza di comunicazione, una paura di interagire, mentre stanno prendendo sempre più piede frange di estrema destra che diffondono pregiudizi. Anche propalando (false) notizie sull’arrivo di “nuovi poveri”. Che cosa si può fare?
Noi non abbiamo paura dell’altro, noi abbiamo paura “dell’altro che siamo noi”, della nostra relazione con l’altro che siamo noi. Abbiamo paura della nostra reazione nei confronti dell’altro, di quello che siamo noi rispetto all’altro. Non è solo una questione psicoanalitica, si tratta proprio della nostra incapacità di capire cosa potremmo fare nel momento in cui persone straniere arrivano sotto casa nostra, nel nostro negozio di barbiere, nel nostro teatro. Siamo noi che dobbiamo saper gestire la nostra relazione con l’altro.
Una risposta molto significativa, su cui dovremmo riflettere tutti per un po’.
Qui l’intervista di Alessia Barbagli uscita il 26 aprile 2019 su Left.