La Federazione italiana esperantisti ha appena organizzato a Brescia, l’89esimo Congresso italiano di esperanto con un programma davvero corposo: dalla storia della lingua e della cultura occitane ai corsi di esperanto; dai seminari riguardanti gli attuali conflitti nel Mediterraneo alle città gemellate che si uniscono grazie all’arte; dalle relazioni sui temi artistici agli inizi del Novecento al ricordo di Ludwik Lejzer Zamenhof, inventore dell’esperanto, e di Giuseppe Pinelli anarchico ed esperantista.
Una pagina da Una libro per russi, 1887
La storia della Lingvo Internacia (Lingua internazionale)
L’esperanto, lingua pianificata, nasce tra il 1872 e 1887. Il suo inventore, l’oculista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, la espone in un libro, Primo libro (Unua Libro, Varsavia 1887) e la presenta a Varsavia nel 1887 come Lingvo Internacia. Prende il nome di esperanto (“Colui che spera”) dallo pseudonimo di “Doctor Esperanto” utilizzato dal suo inventore. Il grande obiettivo del medico polacco è quello di far comunicare fra loro i popoli del mondo e favorire la pace. Le regole della grammatica dell’esperanto sono semplici da apprendere, Zamenhof le scelse tra le tante lingue studiate perché arricchissero la lingua pianificata con l’espressività di una lingua etnica. Per Zamenhof l’assenza o la difficoltà di dialogo tra i popoli dovuta alle differenze linguistiche, è stata una delle cause, se non la principale, di violenze e guerre infinite nel corso dei secoli.
Dette il nome di Lingvo Internacia alla lingua da lui inventata perché avrebbe dovuto essere usata tra le diverse nazioni per dialogare tra loro e comprendersi, proteggendo nello stesso tempo le lingue minori e la differenza linguistica: una lingua in più quindi e che, soprattutto, non sostituisce la propria. Nella Dichiarazione di Boulogne (9 agosto 1905, Boulogne sur-Mer, congresso mondiale di esperanto) e nel Manifesto di Praga (luglio 1996, Praga, congresso universale di esperanto) sono espressi gli ideali del movimento nei quali si sottolinea la sua neutralità rispetto a ogni tipo di organizzazione o corrente (politica, religiosa, o di altro tipo) e si evidenzia, nello stesso tempo, l’indipendenza di ogni esperantista dal movimento.
Ma esperanto è una parola affascinante che spinge a leggere di più per scoprire il senso profondo della sua storia e dell’idea di quel medico, un oculista, che cercò di “vedere”, e soprattutto sperare in qualcosa che non c’era più tra gli esseri umani perché era stata perduta.
Un’immagine dell’uscita dal Congresso Universale di Boulogne-sur-Mer del 1905 (Caudevelle, 6 agosto 1905)
A Michela Lipari, responsabile dei grandi eventi culturali della Federazione esperantisti italiani e presidente del comitato organizzatore del congresso mondiale di Torino 2023, chiedo un approfondimento anche sul tema del Congresso italiano di esperanto: “La pace non capita per caso: il ruolo attivo delle città gemellate nella costruzione di un popolo europeo”. E subito il suo entusiasmo mi coinvolge: dice che nemmeno le lunghe e continue restrizioni dovute al Covid hanno mai scoraggiato gli esperantisti di altri Paesi dall’incontrarsi, sia pure on-line, per scambiarsi idee e progettare eventi, men che mai gli esperantisti italiani che, l’anno scorso, con attenzione e rispettando le regole imposte per evitare i contagi, si sono incontrati anche di persona.
Quest’anno a Brescia, il movimento ha presentato una grande novità: la première del film in esperanto Pino – Vita accidentale di un anarchico, dedicato all’esperantista Pinelli, e il cui soggetto è stato scritto dalle figlie Claudia e Silvia Pinelli. Brescia è una città che appoggia e incoraggia molto il Movimento esperantista organizzando per i cittadini numerosi eventi d’arte in cinema e teatri. Gli studi sulla lingua esperanto continuano e si approfondiscono e ogni anno vengono scritte oltre cinquanta tesi su questo tema. L’Università di Parma ha istituito, dal 2009 il premio “Giorgio Canuto” alla miglior tesi in “Interlinguistica ed esperantologia”. Il premio è dedicato al professor Giorgio Canuto, rettore dell’Università di Parma dal 1950 al 1956, e presidente internazionale del Movimento esperantista dal 1956 al 1960. Parlando anche di scuola, Michela Lipari racconta l’esperienza portata avanti per due quinquenni nell’Istituto comprensivo “Don Milani” del comune di Verdello (Bg); sul sito della scuola si legge che l’anno scorso, 2021, nonostante il Covid e le lezioni svoltesi on-line, a maggio tutti e venti i ragazzi del corso di esperanto del secondo quinquennio hanno superato l’esame con esito positivo.
Chiedo un parere e un approfondimento sull’esperanto anche allo scrittore fiorentino Massimo Acciai Baggiani, esperantista, glottoteta, docente di lingua italiana e direttore della rivista Segreti di Pulcinella, il quale mi dice che, in realtà, l’esigenza di una lingua universale nasce prima dell’Ottocento; c’era già nel Seicento con Leibnitz e le lingue filosofiche. Umberto Eco ne approfondisce il tema nel saggio La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea. È una storia antica. Massimo Acciai Baggiani ritiene che l’esperanto sia oggi una realtà viva e vitale, vittima di pregiudizi portati avanti anche da uomini di cultura (il che è grave) e che sia una lingua bella, magari migliorabile ma ormai consolidata e con tutto un mondo meraviglioso dietro, purtroppo del tutto sconosciuto ai non esperantisti.
Alla scoperta dell’Esperanto in Italia
Per conoscere di più le origini di questa lingua, un contributo fondamentale viene dal libro Alla ricerca della democrazia linguistica: l’Esperanto in Italia (Casa editrice Il Poligrafo, 2007, su Academia.edu) di Carlo Minnaja, professore di matematica applicata presso l’Università di Padova e membro dell’Accademia internazionale delle scienze di San Marino dal 1989. Il professore ha scritto numerosi libri sull’esperanto, per lui lingua madre perché figlio di genitori esperantisti. In questo libro ripercorre la storia dell’esperanto e di altre lingue “pianificate” come il Volapűk, il quale, dopo essere stato all’apice della sua diffusione nel 1880, declinò rapidamente perché l’estrema deformazione delle radici linguistiche toglieva alle persone la possibilità di sentirla come propria, di sentire in essa qualcosa di sé.
Minnaja racconta che Zamenhof, vivendo fin da piccolo in un ambiente composto da varie etnie, per esprimersi poteva solo scegliere tra una lingua morta da secoli e una lingua imposta da chi opprimeva il suo Paese. Gli ebrei dispersi nella diaspora non avevano più una lingua comune con la quale comunicare tra loro come se fossero riuniti in un unico territorio, per questo nacque in lui il sogno di una lingua universale, non nazionale, e neutrale, che avrebbe ridato loro l’indipendenza e una possibilità nuova per comunicare. Zamenhof studia per due anni all’Università di Mosca senza mai smettere di interessarsi alle lingue continuando, in segreto, ad elaborare la sua. Nel 1885, a Varsavia, si laurea in medicina, specializzandosi in oftalmologia l’anno dopo. Pubblica la prima grammatica nel 1888, ben presto diffusa presso librerie, accademie, riviste e presso numerosi intellettuali. Con il 1889 la lingua internazionale del dott. Esperanto comincia ad essere chiamata semplicemente con lo pseudonimo del suo fondatore, e saranno chiamati esperantisti coloro che la parleranno. La rivista La Esperantisto (“L’Esperantista”, 1889-1895) introduce in Italia l’esperanto, che si diffonde sempre di più. Molti scrittori e poeti traducono in questa nuova lingua opere scritte in arabo e in altre lingue, ed anche la musica ne viene conquistata. Nel 1905 si svolge, come già detto, a Boulogne-sur-Mer, località turistica sulla Manica, il primo Congresso mondiale di Esperanto: 688 persone di 30 nazioni si incontrano.
Ludwik Lejzer Zamenhof
La lingua ha ormai più di diciotto anni e ha dimostrato la sua utilizzabilità a tutti i livelli, anche nelle semplici conversazioni. È un incontro su vasta scala molto importante e, anche se la maggior parte dei partecipanti ha imparato la lingua su un manuale senza mai praticarla a voce con altre persone di diverse nazioni, la pronuncia e la comprensione risultano perfette. Questo non poteva esprimere valori artistici. In Italia, nel 1918, il giovane Antonio Gramsci, non era per niente d’accordo con i socialisti dell’Avanti! (vedi anche Gramsci e l’esperanto. Quello che si sa e quello che si deve sapere, a cura di A. Montagner, introduzione di C. Minnaja, Arcipelago edizioni, Milano 2009) che invece erano entusiasti della lingua di Zamenhof.
Gramsci diceva che la lingua internazionale era uno sproposito dal punto di vista scientifico, in quanto le lingue non possono essere suscitate artificialmente. Egli considerava già “esperanto” la lingua italiana, perché imposta dall’alto, anche se era necessario impararla per uscire dall’isolamento culturale, sociale e politico in cui si trovavano le genti di quasi tutte regioni italiane, soprattutto quelle che vivevano nelle isole, a causa del dialetto, unica lingua parlata, anche se ricca di grande espressività. Gramsci si esprime contro l’idea di una lingua internazionale, in quanto la vede proposta prima che se ne creino le condizioni politiche, economiche e sociali. Il prof. Minnaja, approfondendo il problema sostiene che, se la lingua è nata e si è moderatamente sviluppata creando valori artistici, vuol dire che le condizioni c’erano sia pure in ambiti più ristretti. In seguito Gramsci, nei Quaderni del carcere (Einaudi, 2007), nei “Saggi sulla grammatica e sulla lingua unica”, parla dei sostenitori fanatici delle lingue internazionali. La sua posizione fortemente scientifica si ritroverà poi anche in altri intellettuali di scuola non marxista.
Ma l’esperanto progredisce comunque, guardato però con diffidenza da altri intellettuali, i quali non gli perdonano la nascita pianificata a tavolino. È ancora famoso il manuale del linguista, filologo ed esperantista Bruno Migliorini, pubblicato da Paolet nel 1925, tutt’oggi in uso, riaggiornato e ripubblicato (l’ultima edizione del 1995 ha una prefazione di Tullio de Mauro). Il nazifascismo perseguita pesantemente gli esperantisti classificandoli come elementi pericolosi, cosmopolitici e filocomunisti, moltissimi di loro vengono fucilati o mandati in Siberia. La guerra termina, gli anni del dopoguerra scorrono veloci. Il 1951 segna l’anno di svolta con il 23° Congresso italiano di esperanto a Pisa, dove interviene il
ministro dell’istruzione Antonio Segni. All’Unesco vi fu una campagna ostile nei confronti dell’esperanto ma, in una petizione firmata da 895mila persone, tra cui 1.600 linguisti e oltre 5mila professori universitari e da 492 associazioni in rappresentanza di oltre 15 milioni di cittadini, si chiese alle Nazioni Unite di considerare il problema della lingua internazionale e la soluzione offerta dall’esperanto. La risoluzione viene approvata dopo una serie di rimandi il 10 dicembre 1954 a Montevideo (e riapprovata ulteriormente dall’Unesco a Reykjavìk nel 1985) ma ammetteva solo che l’esperanto, usato ormai da oltre sessant’anni, era uno strumento valido per lo scambio di valori culturali. C’era solo il mandato di seguire l’evoluzione della lingua nei vari Stati, per altro normale compito dei Comitati dell’Unesco, ma nessun impegno per gli Stati membri.
In Italia, il ministro della Pubblica istruzione, il socialdemocratico Paolo Rossi, riconferma la circolare del 1956 a firma del ministro Antonio Segni, con la quale si portava l’esperanto nelle scuole ed è così che la Fei (Federazione esperantisti italiani) punta alla possibilità di inserire l’insegnamento dell’esperanto nelle scuole in via ufficiale. La legge suddetta consente l’avvio sperimentale della scuola a tempo pieno e l’istituzione di posti nell’organico pubblico per gli insegnamenti speciali e le attività integrative. A Cesena, nella scuola elementare “Oltresavio” viene avviato un progetto con l’offerta di insegnamento di una lingua straniera. Fu scelto l’esperanto anche perché molti genitori erano esperantisti e perché lo studio dell’esperanto predisponeva all’apprendimento di altre lingue ed educava all’internazionalismo e alla fraternità. Il movimento esperantista fu principalmente di matrice cattolico-liberale, ma vi furono anche componenti, associazioni di lavoratori in sintonia con altre associazioni che si erano staccate dal movimento borghese. Il “Laborista Esperanto” (gruppo esperantista dei lavoratori) di Genova, pubblicò in esperanto I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini. Altri collettivi esperantisti si attivarono contro la corsa agli armamenti e a Forlì, negli anni Settanta, “Libere cane esperantista kubo” (Club esperantista dei liberatori) pubblica ad opera degli anarchici esperantisti i ritratti di L.L. Zamenhof e di Giuseppe Pinelli ritenendo che il modo migliore di commemorare entrambi fosse quello di far circolare, attraverso la meravigliosa lingua dell’esperanto, le esperienze di lotta e d’impegno quotidiano.
La storia dell’esperanto continua nel libro del prof. Carlo Minnaja seguendo i movimenti della lingua internazionale e le opere di tutti gli scrittori e poeti che la adottarono e la adottano ancora oggi. Mi fermo qui perché la data del 1872, anno in cui nasce e si sviluppa l’esperanto, mi riporta ad un’altra data, estremamente importante: il 1972. La bacchetta da rabdomante mi trema tra le dita e quindi scavo ancora. Azzardo nessi in un silenzio segnato dallo scorrere del tempo e mi chiedo se quella di L. L. Zamenhof fosse una grande intuizione, rimasta però incompleta. Il medico oculista cercò di “vedere” quello che mancava agli esseri umani perché era stato perso o tolto, e inventò una lingua fatta di “nuove” parole che, pur conservando in parte la loro radice linguistica, rinascevano, in modo diverso, da essa e dalla fusione con radici linguistiche di altre lingue. Parole “nuove” nelle quali tutti potevano ritrovare ancora una parte della loro storia e cultura, e con le quali comunicare tra loro e con le persone di altri Paesi europei e del mondo.
1972, cento anni dopo: un altro medico, Massimo Fagioli, psichiatra e scienziato, pubblica il primo di quattro libri in cui è esposta una fondamentale scoperta riguardante la nascita umana e la grande teoria che ne consegue, teoria della nascita, fonte di immense ricerche ed infinite possibilità per la conoscenza della psiche degli esseri umani, e per la sua cura e guarigione, qualora si dovesse ammalare nel lungo e difficile cammino della vita. Lui non crea parole nuove, usa quelle conosciute ma in modo nuovo, perché è nuovo il pensiero dalle quali esse nascono e rinascono. È quel tanto, e molto di più, che però forse fu solo intuito dal medico oculista Zamenhof e da altri grandi e che, come una sorgente d’acqua pura continua a sfociare, inesauribile, dagli anni Settanta del secolo scorso per aggiungere alla speranza la certezza dell’esistenza di altri esseri umani con i quali è possibile rapportarsi nel modo più bello e profondo perché parla di immagine interna, che dà alle parole conosciute significato e senso vero e profondo.
Nella foto d’apertura, il magazine Esperanto, novembre 2015