Il regista francese, scomparso ieri, è stato protagonista di una ricerca originale, caratterizzata da una riflessione continua sul linguaggio delle immagini. Ecco il percorso artistico di uno dei più grandi esponenti della Nouvelle Vague

«Signor Parvulesco, qual è la più grande ambizione della sua vita?»
«Divenire immortale… e poi morire» (dialogo dal film A boute de souffle – Fino all’ultimo respiro)

È scomparso ieri, 13 settembre, all’età di 91 anni, Jean-Luc Godard, cineasta tra i più importanti della storia del cinema e tra i maggiori esponenti della Nouvelle Vague, insieme a Éric Rohmer, François Truffaut, Claude Chabrol e Jacques Rivette, con i quali condivide anche la critica militante e appassionata sui Cahiers du Cinéma (dove si firma, inizialmente, con lo pseudonimo di Hans Lucas). E furono proprio loro a infondere alla rivista l’impronta audace e battagliera che – da un certo momento in poi – contraddistinguerà le sue pagine. In quel periodo, il giovane critico frequenta i corsi di filmologia alla Sorbona, il più delle volte disertati per recarsi nei cineclub parigini del Quartiere Latino. Successivamente, insieme a Jean-Pierre Gorin e Gérard Martin, darà vita al collettivo Dziga Vertov, coraggioso promotore di un cinema di ricerca, militante e rivoluzionario.

Jean Luc Godard al festival di Cannes, 15 maggio 2001

«A mio avviso, il cinema è, allo stesso tempo, spettacolo e ricerca»: queste le parole di Godard in apertura della conferenza stampa indetta dai Cahiers il 16 febbraio 1968 e presieduta dal regista stesso, a difesa del ruolo preminente di Henri Langlois, da poco destituito dal ruolo di direttore tecnico e artistico della Cinémathèque.
Raffinato cineasta, Godard rivendica, fin dal suo primo lungometraggio, A boute de souffle (1960) – una personale e originale ricerca sul cinema, legata a una profonda e sempre rinnovata riflessione sul linguaggio. Mediante uno sguardo che privilegia la modalità di rappresentazione al racconto, marginale ed essenziale: un cinema antinarrativo, pionieristico nel sovvertire le norme codificate del découpage classico che ponevano in primo piano la linearità della storia. È nella modernità del suo sguardo che scorgiamo la portata innovativa e rivoluzionaria del suo cinema, nelle scelte stilistiche, nell’indagine minuziosa della realtà, dei corpi e del loro movimento, nell’attenzione al dettaglio. Pensiamo ai numerosi jump-cuts del suo primo film, veri e propri salti temporali che creano discontinuità all’interno dell’inquadratura.

Andrà sempre più a fondo con le successive pellicole – Vivre sa vie (1962), Le Mépris (1963), Une femme mariée (1964) in particolare – dove il singolo piano è costruito in modo tale da frammentare lo spazio e finanche il corpo dei personaggi; fino ad arrivare al rifiuto del campo/controcampo in Masculin féminin (1966), nel quale viene ratificata la violazione alla norma come segnale di poetica e, conseguentemente, rivendicata una sempre maggiore libertà di sperimentazione, anche nel rapporto tra visivo e sonoro. Fino ai più recenti e complessi Tout va bien (1972), ultimo film nato all’interno del collettivo Dziga Vertov, Passion (1982) e Nouvelle Vague (1990).

In primo piano i corpi femminili, sfuggenti nella loro totalità, come in Une femme mariée, dove il corpo nudo della donna viene maggiormente scomposto per inquadrarne dapprima le gambe, le mani, la schiena, fino ad arrivare al volto.
«Il cinema, diceva André Bazin, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Questo film è la storia di questo mondo», è quanto dichiarato all’inizio del film Le Mépris (nella sua versione originale, non in quella italiana, tristemente rimaneggiata). Qui, sono i piani sequenza e le composizioni geometriche nate dall’incontro del corpo di Camille (Brigitte Bardot) con quello di Paul (Michel Piccoli), all’interno della villa – che sembrano rievocare, anche per i colori utilizzati, le tele di Mondrian – a permettere a Godard di esplorare lo spazio in libertà.

Tra le scene iconiche realizzate dal regista francese, pensiamo all’indimenticabile corsa, all’interno del Louvre, dei protagonisti del film del 1964, Bande à part, che ha ispirato registi come Tarantino e Bertolucci. E ancora, a Michel (Jean-Paul Belmondo) e Patricia (Jean Seberg) lungo gli Champs-Élysées, o nella camera dell’Hotel de Suède dove la donna gioca con il proprio volto riflesso allo specchio.

Leone d’oro alla carriera nel 1982 e Oscar alla carriera nel 2011 (tra i numerosi riconoscimenti) Godard ha costantemente perseguito, nella sua ricerca cinematografica, il rapporto tra pensiero e linguaggio, unitamente a quello che lo lega alle altre arti.
Il drammaturgo e poeta tedesco Heiner Müller, ricordando il suo soggiorno a New York nel 1975 – quando guardò per settimane intere film americani, provando infine una sorta di repulsione per questa mentalità di action e plot – scrive: «Ad un certo punto ci fu una retrospettiva su Godard e mi sembrò di respirare, perché all’improvviso vidi di nuovo film che avevano a che fare con il pensiero, che producevano un’eccedenza di idee».