Aleksandr Solženicyn fu non soltanto un testimone degli orrori dell’esperimento sovietico, ma un lucido analista del mondo di poi, della “Grande catastrofe russa” post-1989. Vedremo subito come la lungimiranza e profondità della sua analisi sia ancor oggi di sconcertante attualità.
Nonostante il senso di liberazione per la caduta del regime comunista, Solženicyn fu da subito un critico inflessibile della “nuova Russia” di Putin. Raccolse le sue considerazioni in un saggio del 1994 (La “questione russa” alla fine del XX secolo, Torino, Einaudi, 1995), anno del rientro in Russia dall’esilio. Il premio Nobel era convinto che settanta anni di regime comunista avessero intaccato la fibra profonda del Paese, ipotecando anche il futuro: «Soltanto a voler fare del sarcasmo, a mo’ di scherno, si può chiamare democrazia, vale a dire potere del popolo, il potere esercitato nel nostro Paese nel 1991». Dunque dopo il comunismo nessuna democrazia. Ma neanche “libero mercato”: «Stiamo creando una società spietata, feroce e criminale, di gran lunga peggiore dei modelli occidentali che cerchiamo di copiare». E ancora: «Profitto! Profitto a qualunque prezzo! Sia pure con l’inganno, con la corruzione, con lo stupro, con la vendita dei beni della propria madre (la patria)! Il “profitto” è divenuto la nuova (e del tutto insignificante) Ideologia».
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