Il voto del 25 settembre ha dimostrato che i ceti popolari, i più colpiti da disuguaglianze e precarietà, si sono allontanati, non solo dai partiti della sinistra e del centrosinistra ma da tutto il sistema della rappresentanza: non hanno votato

I risultati delle elezioni sono stati chiarissimi. Una parte degli elettori – mai così consistente, il 36,1% – non si è recata alle urne. La destra ottiene la maggioranza (44%, aveva il 37%), ma non è la prima volta; il centro-sinistra prende il 26,1% (aveva il 25,9%), su un numero di voti validi, però, che è molto più basso del 2018. E la legge elettorale maggioritaria/proporzionale dà alla destra una maggioranza di tre quinti delle due camere.

Il centro-destra aveva già ottenuto un successo anche maggiore: nel 2008, infatti, il PdL di Berlusconi (con la Lega Nord) aveva ottenuto il 46,8%, con 17 milioni di voti (e la destra, da sola, il 2,6%, con 885mila voti). Allora, il neonato Pd di Veltroni aveva preso 12,1 milioni di voti (33,2%) e le altre sinistre 1,3 milioni (3,6%). Da allora, il Pd non ha fatto che perdere in numeri e in percentuale, per arrivare ai 5,4 milioni di oggi (il 19,1%), mentre le altre sinistre – dall’alleanza Si+V ad UP e Rizzo – non arrivano a 1,8 milioni (5,9% complessivo).

Il dato prevalente, ovviamente, è la crescita dell’estrema destra (come i commentatori all’estero, giustamente, la chiamano) che passa tra il 2018 e oggi da 1,4 a 7,3 milioni di voti, “prosciugando” Lega e Forza Italia. Nel complesso, il centro-destra non cresce, però, e mantiene i suoi 12 milioni e passa di voti. Il centro-sinistra, invece, ne perde quasi 800mila, mentre il gruppo di Calenda e Renzi ne ottiene 2,2 (e qui si vede quanto ha contato essere su tutti i canali televisivi ogni giorno). Il grande perdente, in questo senso, è il M5s, che dei 10,7 milioni di voti che aveva ne raccoglie appena 4,3, dissipandone così 6,4. Eppure, tutti a dire che Conte ha ottenuto un buon risultato.

Dove sono andati quei voti? Chi aveva votato 5 Stelle, già dal 2013, aveva visto in quello una proposta politica che andava contro l’establishment portando avanti istanze ambientaliste ed egalitarie. Un voto populista “di sinistra”, si era detto, dacché aveva fatto presa sui ceti medi proletarizzati e i ceti popolari che non trovavano più risposte a sinistra, soprattutto al Sud e nelle aree urbane periferiche. Dopo un’intera legislatura al governo, i 5S hanno chiaramente disatteso quelle domande e hanno così pagato. Ma i loro elettori solo in parte si sono rivolti altrove, preferendo astenersi. Solo così si può spiegare l’enorme calo dell’affluenza che, non a caso, è stato maggiore nel Meridione (in molte aree, di poco superiore al 50%).

In sostanza, quell’Italia sofferente e insofferente, che già non aveva trovato rappresentanza nell’offerta politica dei partiti che erano stati al governo dal 1994 – tanto del centro-destra che del centro-sinistra – ha definitivamente scelto di restare a casa. E ciò deve fare riflettere soprattutto le forze di sinistra che a quell’elettorato si rivolgono. Perché il loro “appeal” appare oggi parecchio sbiadito. L’Italia divisa che si era già manifestata nel 2018 è lì, ancora più evidente. Il Paese reale, quello del lavoro precario, della povertà, escluso, che vive nell’instabilità e nell’incertezza, si sente sempre più lontano dai palazzi della politica, che non trovano linguaggio e modi per dargli voce. E ha detto no.

Le tendenze, già manifestatesi nel 2018, si sono confermate tutte. La destra ottiene più consensi nei comuni piccoli e delle aree “interne”, più marginali, o peri-urbane, mentre centro-sinistra, Azione e M5s (al Sud) prevalgono nei centri urbani più grossi. E questo è vero anche per la sinistra. Nei comuni con maggiore presenza di stranieri, soprattutto se piccoli, prevale la destra. Il centro-sinistra e la sinistra, invece, si affermano dove maggiore è la presenza di laureati. Tra disoccupati e persone in difficoltà economiche, prevale il non voto o, in alternativa, il voto ai 5Stelle (ma anche alla sinistra e non al Pd). E sono i comuni a più alto reddito a premiare il Pd e Calenda, mentre dove il reddito delle fasce basse è prevalente, soprattutto se periferici, prevale la destra o i 5 Stelle (al Sud) o, anche se in misura minore, la sinistra. In sostanza, i ceti popolari, i più colpiti da disuguaglianze e precarietà, si sono allontanati, non solo dalla sinistra, ma dal sistema tutto: non ci credono più, non si sentono più rappresentati.

L’altra sinistra (Up) prende relativamente più voti al Sud – dove evidentemente il suo messaggio “passa” meglio – e in varie altre zone a maggiore “politicizzazione”, come in Toscana ed Emilia-Romagna. Ciò ha a che fare sia con l’influenza dei media locali e nazionali – sui quali è stata bandita – che con la presenza sul territorio. I grandi media hanno oscurato, deliberatamente, le liste di sinistra, lasciando passare l’idea che non vi fosse altra sinistra oltre a quella raccolta sotto l’ombrello Pd. E su di essa ha anche pesato una campagna elettorale preparata troppo in fretta. Quanto la divisione tra le forze della sinistra le abbia penalizzate è difficile dire. Sinistra italiana ha preferito presentarsi sotto l’egida del Pd, di fatto separandosi da chi voleva invece rimarcare l’alternativa a quel blocco. È facile lamentare oggi tali divisioni. Ma finché in Italia non si prende atto che il “progetto Pd”, di una forza che pretende di rivolgersi alle classi popolari ma poi guarda (solo) ai ceti medi, è fallito, non se ne uscirà.

Il tempo è giunto, per la sinistra tutta, per ripensarsi, per tornare a “fare la sinistra”. Sinistra italiana dovrà decidere che strada prendere, se restare ancillare al Pd o lavorare in direzione unitaria. Unione popolare dovrà crescere, allargandosi verso quell’elettorato perduto, ridandogli una prospettiva. Il Pd, auspicabilmente, avvierà una discussione al suo interno, che andrà favorita. Tutta la sinistra dovrà incalzare il dibattito, dentro e fuori il Pd, per trarre finalmente una lezione da queste elezioni il cui risultato, per una volta, è chiarissimo.

L’autore:  Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È stato candidato per Unione popolare in Emilia Romagna