Vi riproponiamo questa intervista alla scrittrice francese Annie Ernaux vincitrice del Nobel per la letteratura 2022, realizzata da Left nel luglio 2016 dopo la sua vittoria del premio Strega europeo

«Il tema non è così importante. Ciò che conta è la postura nella scrittura. Io ho scelto la realtà». Con queste parole dirette, asciutte, Annie Ernaux dialoga con il coraggioso Marco Missiroli, artista in residenza all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, diretto per qualche settimana ancora da Marina Valensise. «Durante tutta la mia giovinezza ho letto romanzi di finzione, poi ho scoperto che nei romanzi poteva entrare la realtà e ne sono rimasta sconvolta». La sala conferenze dell’Istituto accoglie i visitatori tra specchi e boiserie dorate, le ampie finestre dell’Hôtel de Galliffet affacciano su un giardino verdissimo, con un prato e i grandi castagni così caratteristici della Rive Gauche. Si entra in un tempo altro, il tempo letterario, lo stesso che si ritrova nei libri di Annie Ernaux.

La memoria come strumento di ricerca della realtà, la memoria che tradisce, che cambia, che rimuove, che amplifica e che viene ricostruita, o forse decostruita attraverso la scrittura. Un esercizio di sottrazione più che di accumulazione. Ernaux racconta che l’accumulazione avviene nel lavoro di preparazione che può durare anni: note, liste di ricordi, una frase, una parola, un dialogo avvenuto molti anni prima. «Prima di scrivere, non c’è niente, solo una materia informe, ricordi, visioni, sentimenti… poi mi metto alla ricerca della forma». In uno dei suoi capolavori La Place, Il posto (L’orma editore per la traduzione italiana), la forma è completamente svuotata di ogni sentimento, sebbene nasca dal dolore, la progressiva separazione dal padre, l’allontanamento dalle proprie origini sociali e la morte di quest’ultimo, la scrittura è “piatta” come la definisce l’autrice, «ho tolto tutto, è stata una sorta di depurazione, mi sembrava l’unico modo giusto di trattare l’argomento, di rimanere fedele alla storia che dovevo raccontare».

C’è una componente politica in questa scelta di spoliazione. Lo spiega bene Annie Ernaux nel libro che raccoglie le sue conversazioni con Frédéric-Yves Jeannet, L’écriture comme un couteau, la scrittura come un coltello: “Porto nella letteratura qualcosa di duro, di pesante, di violento anche, legato alle condizioni di vita, alla lingua del mondo che fu il mio, completamente, fino a diciotto anni, un mondo operaio e contadino. Sempre qualcosa di reale. Ho l’impressione che la scrittura è ciò che posso fare di meglio, nel mio caso, nella mia situazione di transfuga, come atto politico e come dono.

Piove fuori in questa estate che non arriva. Piove forte e la sala si fa scura, poi esce il sole mentre la pioggia continua a scendere e il verde delle piante diventa oro e smeraldo, più scintillante ancora degli specchi e delle boiserie. E penso a quanto i libri di questa donna siano importanti per me. A quanto la sento presente, viva, radicale. A quanto le sue parole mi tocchino nel profondo, sconvolgendomi. È questa la letteratura. Mi avvicino a lei alla fine dell’incontro con un po’ di emozione per farle firmare una copia del suo ultimo, bellissimo libro, Mémoire de fille, che si conclude con questa frase: «È l’assenza di senso di ciò che viviamo nel momento in cui lo viviamo che moltiplica le possibilità della scrittura». Siamo sedute per qualche minuto una accanto all’altra, scambiamo qualche parole, poi mi scrive: «A Chiara, con tutta l’emozione di un bisogno di scrivere condiviso». Per un istante la solitudine della scrittura è spezzata. Come in un incantesimo.