Vincitore del Premio Campiello con "I miei stupidi intenti" il giovane scrittore Bernardo Zannoni ci regala un apologo sul valore e il senso più profondo della scrittura

«Avevo intrappolato la mia prigione nella carta. Ero di nuovo libero, e triste». L’esordio di Bernardo Zannoni (27 anni), I miei stupidi intenti, pubblicato da Sellerio nel 2021 (vincitore del Premio Campiello 2022 e del Premio Opera prima Severino Cesari nell’ambito di Umbria libri), vive di parole, parole che danno libertà e forse dannazione. È un libro che parla di libri, anzi del Libro e di scrittura; è un libro di storie, a partire da quella del narratore protagonista, una faina di nome Archy, che, rimasta zoppa, viene ceduta dalla madre in cambio di una gallina e mezzo all’usuraio Solomon, una volpe, che da aguzzino diventerà il suo maestro e mentore, perché insegnerà ad Archy a leggere e a scrivere. Il fatto che i personaggi del romanzo di Zannoni siano animali, lo collocano naturalmente nel solco della tradizione favolistica, ma in modo diverso: Zannoni non ha una morale da trasmettere e l’idea di scegliere degli animali come personaggi del suo libro, in realtà, sembra più riconducibile all’esigenza di essere libero da insegnamenti e considerazioni morali.

Semmai il richiamo alla favola va inteso in senso etimologico, perché I miei stupidi intenti è un romanzo che mette al centro il narrare e il raccontare; lo scrivere per esaltare ed esorcizzare al tempo stesso i sentimenti “primitivi” degli uomini, amore e paura, e per sconfiggere la morte («La morte la uccidi se non ci pensi», e se la scrivi, la racconti). L’esordio di Zannoni è un grande elogio alla solitudine; molti personaggi del libro appaiono come anime salve, e lo sono per statuto Archy e Solomon, il cui rapporto vive di silenzi e di parole silenziose, scritte e lette, che assumono un carattere sacerdotale, sacrale. Solomon e Archy, il maestro e l’allievo (e Archy, da anziano, diventerà a sua volta maestro, dell’istrice Klaus): «La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva. L’oggetto sul tavolo, la parola di Dio, mi disse di chiamarlo libro, e i segni in esso contenuti scritte. Per capire cosa dicevano dovevo imparare a leggere. Una volta imparato a leggere avrei anche imparato a scrivere. La vecchia volpe sapeva fare entrambe le cose, e siccome ero diventato suo apprendista, disse di non chiamarlo più signore, ma solo Solomon».

I miei stupidi intenti è anche il libro delle domande. «Sai cos’è l’amore?», chiede il vecchio Solomon al giovane Archy, che sta imparando a sue spese quanto può essere meravigliosa e terribile la vita, e che deve oltrepassare la sua personale linea d’ombra («Non avevo più paura, ma continuai a piangere ancora, di gioia»); la vita, che dà e ferocemente toglie, come il suo perduto amore, la bella Luise, sua sorella, che verrà uccisa per invidia dalla madre, e Anja, che fugge da lui di nascosto con i figli, ma che lui non riesce a condannare. «La notte prima ci eravamo detti le nostre ultime parole, e non avrei mai più potuto dirgliene altre, come adesso desidero». Le parole, la parola, che dà il nome a tutto ed è un dono, o una maledizione, che è anche fulgido tracciante di certe meravigliose latitudini semantiche ed esistenziali. «Vuoi che ti insegni le parole?», chiede Archy a Klaus; «Decidi tu, Archy». I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni lascia aperte davanti a sé diverse strade da percorrere. Non resta che attendere quali.

Foto in apertura da Wikipedia