Il "Memorandum della vergogna" tra Roma e Tripoli in materia di immigrazione si rinnova automaticamente ogni tre anni e c'è tempo fino al 2 novembre per impedirne la proroga. «La libertà di movimento non può essere un privilegio del primo mondo. Le persone partono da sempre, si vogliono muovere e si muovono» ricorda a Left Alice Basiglini, volontaria di Baobab experience.

L’Italia ha tempo fino al prossimo 2 novembre per decidere la revoca del Memorandum d’intesa Italia-Libia sull’immigrazione; per questo motivo, negli ultimi giorni, associazioni, organizzazioni e realtà della società civile impegnate nel difendere i diritti dei migranti hanno lanciato iniziative e appelli per chiederne l’abrogazione.

L’accordo, siglato nel febbraio 2017 dall’allora presidente del consiglio Gentiloni e dal suo omologo libico Fayez al-Sarraj, si rinnova automaticamente ogni tre anni e si pone in continuità con i precedenti trattati con la Libia (il Trattato di amicizia del 2008, siglato da Berlusconi e Gheddafi, e la Dichiarazione di Tripoli del 2012): prevede, infatti, la cooperazione «per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei Paesi di origine».

Il punto è che le autorità libiche, compresa la sedicente Guardia costiera del Paese nordafricano, si sono macchiate di numerosi e sistematici crimini a danno dei migranti, dentro e fuori da quei “campi di accoglienza temporanei” assai simili a dei lager per esseri umani “di serie B”.

La missione conoscitiva sulla Libia del Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha segnalato la mancanza di stabilità politica nel Paese – che dal 2011, anno della caduta del dittatore Muammar Gheddafi, è dilaniato dalla guerra civile e in balia di gruppi armati e la persistenza di crimini contro l’umanità, raccogliendo più di 80 testimonianze di migranti «soggetti a violazioni dei diritti umani sistematiche». Fin dal suo primo report, le indagini della missione hanno confermato casi di omicidi, riduzione in schiavitù, tortura, reclusione, stupro e altre azioni inumane condotte a danno dei migranti.

I migranti presenti nel Paese vivono in una situazione di costante insicurezza e i problemi per loro non finiscono in quelli che le associazioni umanitarie definiscono “lager libici”: «I migranti che aiutiamo giunti qui dalla Libia – spiega a Left Alice Basiglini, volontaria di Baobab experience, associazione romana che assiste migranti in transito – principalmente di origine eritrea e sudanese, hanno tutti vissuto esperienze più o meno sfortunate, legate al tipo di centro detentivo dov’erano inseriti, alla durata la permanenza obbligatoria in quei luoghi, a quante volte sono stati truffati, venduti e rivenduti sul mercato degli schiavi, a quante volte hanno subito violenze anche fuori dai lager libici, dai centri detentivi ufficiali e non ufficiali, nelle strade, in abitazioni private».

Le violenze nei confronti della popolazione migrante, i raid continui soprattutto nelle città libiche e nelle loro periferie, sottopongono sistematicamente le persone migranti a una situazione di forte pericolo e rischio. «Il lager è solo una delle dimensioni di un inferno che è un inferno globale – riprende Basiglini -. Stiamo attualmente lavorando all’evacuazione di tre donne, una mamma con due figlie. Una delle figlie aveva già avuto un’esperienza orribile nel lager. Sono state derubate e abusate in un appartamento privato».

 

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha calcolato che nel periodo tra maggio e giugno del 2022 in Libia erano presenti circa 667.440 migranti di 41 nazionalità diverse, un dato in aumento rispetto ai mesi precedenti, anche a causa dell’arrivo nel Paese di lavoratori stagionali, il 65% dei quali poi invia denaro alla propria famiglia perché sopperisca a bisogni alimentari. Questi migranti sono, nella maggior parte dei casi, irregolari, e «tanto l’ingresso irregolare in Libia quanto l’intento di lasciarla clandestinamente sono considerati motivi di detenzione per la legge libica», come recita il rapporto Out of Lybia, rilasciato lo scorso 20 giugno da Medici senza frontiere.

«Quello che succede è che, finita la traversata del deserto e giunti in Nord Africa, molti migranti vengono ingannati e venduti come schiavi – spiega ancora la volontaria di Baobab experience -. Quando hanno lavorato abbastanza per pagare la propria libertà e dovrebbero imbarcarsi, possono incorrere in rapimenti, o per essere reinseriti nel mercato degli schiavi oppure per una richiesta di riscatto. I trafficanti sanno che gli eritrei, ad esempio, generalmente hanno maggiore disponibilità economica, quindi sono più esposti al ricatto. Per i sudanesi è diverso, perché spesso non possono pagare la propria libertà, quindi la “pagano” con la schiavitù. Le persone possono venire rapite, incarcerate e rivendute anche più e più volte».

Secondo quanto dichiarato nel novembre 2021 dalla missione indipendente del Consiglio Onu per i Diritti umani, i migranti possono subire fino a dieci volte questo ciclo di incarcerazioni e ricatti; quando poi riescono a imbarcarsi per tentare la traversata del Mediterraneo, qualora la sedicente Guardia costiera libica li intercettasse, il ciclo ricomincerebbe da capo.

Dal 2017 all’ottobre 2022 sono state quasi centomila le persone intercettate in mare dalle autorità libiche e riportate indietro, anche grazie ai finanziamenti italiani ed europei: secondo la Ong ActionAid, che ha realizzato, in collaborazione con IrpiMedia, il progetto The big wall, dei 1,3 miliardi di euro spesi dall’Italia tra il 2015 e il 2020 per “l’azione esterna migratoria” – in cui si annoverano progetti di cooperazione, finanziamento di posti di polizia, voli di rimpatrio, centri di formazione, acquisto di droni, satelliti, navi, ecc. – più di 459 milioni di euro sono stati destinati alla Libia.

«La libertà di movimento non può essere un privilegio del primo mondo. Le persone partono da sempre, si vogliono muovere e si muovono. Cambiano rotta, come è avvenuto nei Balcani. Tu alzi un muro? Trovano un’altra strada – torna a dire Basiglini -. Si è costruito un mondo in cui una parte delle persone può muoversi liberamente, andare dove vuole, mentre l’altra deve stare a casa propria. Anche se non stanno morendo di fame, di carestie o per le guerre, perché non possono provare anche loro a cambiare la propria esistenza, come fanno migliaia di ragazzi italiani che vanno a studiare o a lavorare all’estero?»

I fondi per la cooperazione, aggiunge la volontaria del Baobab – sostengono una politica «figlia della retorica dell’“aiutiamoli a casa loro”». «Non rendere legali le vie di accesso – prosegue – non significa bloccarle, ma semplicemente criminalizzare l’immigrazione. Ed è quello che abbiamo visto fino adesso: non hai bloccato i flussi, hai fatto morire le persone».

Tali prassi di stampo repressivo nei confronti del fenomeno migratorio sono state peraltro di diverso segno politico. «Non c’è stata una vera e propria contro narrazione – riprende Basiglini -: una parte della politica ha fatto della caccia al migrante e dei respingimenti la propria bandiera, l’altra ha taciuto, portando avanti lo stesso identico paradigma, magari evitando di ridurre ulteriormente gli spazi di tutela, magari evitando di togliere la protezione umanitaria, però nessuno ha messo mano all’impalcatura fondante creata da Gentiloni e Minniti. E speriamo che adesso non peggiori».

Il progetto Missing migrants dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha calcolato che sono 25.106 i migranti dispersi nel Mediterraneo dal 2014, più di mille solo nel 2022. Nella tratta del Mediterraneo centrale sarebbero morte, sempre dal 2014, oltre 20mila persone, un dato che non tiene conto dei cosiddetti “naufragi invisibili”, navi scomparse senza lasciare traccia, impossibili da conteggiare.

 

* In foto, un sit-in di Amnesty International contro gli accordi Italia-Libia in materia di immigrazione davanti alla Farnesina. Roma, 2 febbraio 2022