Il dato più interessante emerso dalla conferenza stampa di presentazione del primo Report della Chiesa italiana sugli abusi su minori compiuti in ambito ecclesiastico non è presente nel Report. Come è stato infatti rivelato da mons. Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale, dal 2001 al 2020 sono stati «613 i fascicoli trasmessi dalle diocesi italiane al dicastero per la Dottrina della fede». È la prima volta dal 2010 che la Conferenza episcopale “aggiorna” pubblicamente questo dato. Il 25 maggio del 2010 era stato infatti l’allora segretario mons. Crociata a raccontare durante l’assemblea generale dei vescovi che dal 2001 erano stati «circa 100 i casi di abusi sessuali rilevati in Italia con procedimenti canonici nell’ultimo decennio».
Venendo al Report, realizzato da ricercatori dell’Università Cattolica di Piacenza sulla base dei dati provenienti da 90 Centri di ascolto istituiti nel 2019 dalla Cei nelle diocesi italiane (leggi l’inchiesta di Left sui Centri d’ascolto) per raccogliere informazioni e segnalazioni dalle vittime di preti pedofili e dare loro sostegno psicologico e giuridico. Stando allo studio tra il 2020 e il 2021 sono state 89 le segnalazioni di abusi e violenze di vario tipo raccolte da 30 dei 90 centri; 40 riguardano minori di 14 anni (45%), 33 di età compresa 15-18 anni e 16 adulti vulnerabili.
Circa la tipologia dei casi segnalati, si legge nel Report è emersa la prevalenza di comportamenti e linguaggi inappropriati” (24), seguiti da “toccamenti” (21); “molestie sessuali” (13); “rapporti sessuali” (9); “esibizione di pornografia” (4); “adescamento online” (3); “atti di esibizionismo” (2). Le segnalazioni fanno riferimento a casi recenti e/o attuali (52,8%) e a casi del passato (47,2%).
I 68 presunti autori di reato sono soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni all’epoca dei fatti, in oltre la metà dei casi. Il ruolo ecclesiale ricoperto al momento dei fatti è quello di chierici (30), a seguire di laici (23), infine di religiosi (15). Tra i laici emergono i ruoli di insegnante di religione; sagrestano; animatore di oratorio o grest; catechista; responsabile di associazione. Il contesto nel quale i presunti reati sono avvenuti è quasi esclusivamente un luogo fisico (94,4%), in prevalenza in ambito parrocchiale (33,3%) o nella sede di un movimento o di una associazione (21,4%) o in una casa di formazione o seminario
(11,9%).
«È solo una prima fotografia, siamo ancora agli inizi», ha detto monsignor Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna e presidente del servizio nazionale della Cei per la tutela dei minori. «A noi preme fare verità sul passato e fare giustizia, perché si tratta di un peccato e un reato gravissimo, ma ci preme anche che ciò non accada più, e per questo siamo impegnati nella prevenzione». Giustizia e prevenzione che però ancora una volta non si concretizzeranno in una collaborazione con la magistratura “laica” tramite la denuncia delle segnalazioni ricevute. Come hanno ricordato i due monsignori, infatti, sollecitati dalle domande dei giornalisti, la legge italiana non prevede l’obbligo di denuncia per reati di questo tipo se non per i pubblici ufficiali. E i vescovi non sono pubblici ufficiali.
Quindi, in buona sostanza, le 89 segnalazioni ricevute dai Centri di ascolto diocesiani sono state trasmesse solo all’Autorità ecclesiastica e tra le azioni poste in essere contro i 68 presunti responsabili sono risultati prevalenti i «provvedimenti disciplinari», seguiti da «indagine previa» della Diocesi e «trasmissione al Dicastero per la dottrina della fede». I 40 casi di violenza su minori si aggiungono pertanto ai 613 “rivelati” da mons. Baturi per un totale di 653 fascicoli aperti in poco più di 20 anni. Abbiamo quindi chiesto a mons. Ghizzoni quali impressioni avesse ricavato da tali cifre e se possano considerarsi il sintomo di un problema di carattere strutturale all’interno della Chiesa cattolica. «Abbiamo ricevuto questi dati da troppo poco tempo per poter fare delle valutazioni approfondite» è stata la replica.
Una prima risposta meno evasiva potrebbe venire da un secondo studio commissionato dalla Cei e annunciato da mons. Baturi che sarà realizzato in base all’analisi dei 613 fascicoli trasmessi in 20 anni dalle diocesi italiane al dicastero per la Dottrina della fede. «Il numero dei fascicoli aperti – ha sottolineato mons. Baturi – può non corrispondere al numero di reati commessi. Possono essere di più o di meno – ha precisato il segretario della Cei – perché un abusatore può aver compiuto più violenze, ma d’altra parte una denuncia può essersi conclusa con una archiviazione. Per questo è necessaria una elaborazione approfondita di queste informazioni, tenendo presente che è forse la prima volta al mondo che si realizza un accordo del genere tra il dicastero per la Dottrina della fede (Ddf) e un episcopato nazionale».
Va bene l’eccezionalità dell’accordo ma questo significherebbe che la Cei a oggi non è a conoscenza dell’esito di quelle 713 segnalazioni. E allora ci si chiede: se non c’è stata comunicazione alla Cei da parte della Santa sede, i preti condannati per pedofilia dal Ddf sono tutti rimasti tranquillamente a svolgere le proprie funzioni nelle rispettive Diocesi? Qualcosa non torna, ma se così fosse non ci sorprenderebbe. Una ipotesi è che i vescovi delle diocesi interessate siano stati informati ma che nessuno, dal vertice in giù, si sia mai preso la briga di mettere insieme tutte le informazioni per avere quanto meno un quadro complessivo del fenomeno.
Quel che è certo è che in nessun caso (dei 613+100+40) è mai stata coinvolta la magistratura italiana. E questo è inaccettabile per un Paese civile, cioè laico.
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Leggi la versione integrale del primo Report della Conferenza episcopale italiana sulla rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili