La magnificenza di Aleppo, il fuoco della rivoluzione siriana, una scintilla mai sopita dopo l'incontro con una giovane e bellisisma novizia. Sono gli elementi che si intrecciano nell'opera del medico e scrittore calabrese, da poco pubblicata per Castelvecchi

«Violenza politico-mafiosa alla Casa dello Studente. Vengono date alle fiamme l’auto del magazziniere Antonio Perrone e la stanza dello studente di Lotta Continua Silvestro Greco. Viene fatto esplodere un ordigno davanti alla porta dello studente di sinistra Santo Gioffrè di Seminara».

Che non sia mai stato uno proprio dal cuore tranquillo lo testimoniano decine di narrazioni, pubbliche e private. Per esempio questo episodio, inserito in un dossier che il Comitato per la Pace e il disarmo unilaterale inviò a metà degli anni Settanta alla commissione parlamentare Antimafia, dal titolo “Le mani sull’università – Borghesi, mafiosi e massoni nell’ateneo messinese”. Eccolo lì, Santo Gioffrè da Seminara, quel paesino della Piana di Gioia Tauro affrescato tra il vento e gli uliveti, noto per il sangue sparso dalle lupare ma assai meno, sciaguratamente, per la ricchezza di storia e cultura, fertile di intelligenze straordinarie, determinanti, come di un “tale” Leonzio Pilato, traduttore di Omero, maestro di greco addirittura di Boccaccio.

Dunque, già da ragazzo, e poi da universitario aveva più volte rischiato la vita Gioffrè, oggi conosciuto in Italia come il medico-scrittore e storico che ha scoperchiato la botola sulla sanità calabrese facendo luce sul fradiciume del sistema politico-masso-mafioso che le ruota attorno. Al punto che troupe tv estere, tra Bbc e altre emittenti europee, giornali internazionali e finanche cineasti hanno sentito la necessità di incontrarlo da vicino e vedere che faccia ha e che cosa ha da dire questo marziano che ha avuto la sfrontatezza di denunciare la grande ingiustizia perpetrata ai danni di una comunità già diseredata dalla storia e dal mondo, rischiando la pelle più dei tempi in cui nello Stretto i militanti di destra gli davano la caccia. Roba seria, tra minacce e pallottole in canna per lui nel 2015, quando da commissario dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Reggio Calabria non tacque su quegli odiosi automatismi tra doppi e anche tripli pagamenti di fatture, scatenando indagini della magistratura e, su di lui, campagne diffamatorie, come puntualmente avviene in questi casi. Un comunista che ha sempre fatto la sua parte con i fatti.

«L’Asp di Reggio Calabria è stata, e forse è ancora, una delle fonti principali di approvvigionamento e di accumulo di fondi neri e arricchimenti illeciti in Italia. Dentro l’Asp, fin dal 2005, è stato creato un sistema perfetto, un’abile rifrazione della logica», scrive a dicembre del 2020 Gioffrè, che da quell’incarico fu disarcionato ad hoc e in fretta e furia, in Ho visto, edito da Castelvecchi. Oggi denunciando i crimini del sistema che lui ha anche definito, e mai descrizione fu più azzeccata, “contabilità orale”, ovvero la chiusura di affari milionari tra crimine e istituzioni senza alcuna documentazione, ieri colonna discreta della militanza a sud della Penisola.

Scherzandoci su, Gioffrè dice di essere da sempre “il compagno incompreso”, riferendosi cioè alle scorribande da primula rossa combattente di sostanza, ma dietro le quinte. Senza dubbio un protagonista della storia della sinistra nel Mezzogiorno, tra militanza e racconti leggendari secondo cui sarebbe stato meglio non trovarselo di fronte quando decideva di dare battaglia per risolvere un’ingiustizia. E un rivoluzionario che cos’è, se non chi non riesce a stare zitto e fermo di fronte alle prepotenze, alle sopraffazioni, alle illegalità che diventano prassi, mettendo in gioco la propria vita per un bene superiore ad essa. Allora rivoluzionario in trasferta, se necessario. Come leggiamo nelle pagine in presa diretta del suo ultimo libro, Fadia, sempre per Castelvecchi, un romanzo che possiamo definire autobiografico, d’amore e di lotta, di storie che intersecano altre storie e la Storia stessa con la maiuscola.

Dentro ci sono passi dolorosi che chiariscono, per esempio, punti chiave della tragedia della guerra in Siria, dove l’autore si è recato più e spesso clandestinamente, passando dal Libano o dalla Giordania. Una narrazione minuziosa quindi su scenari inediti che, altrimenti, non avremmo mai conosciuto. Con lui, appassionato e fine conoscitore di letterature antiche e d’arte, scopriamo vestigia mozzafiato poi distrutte dall’Isis e angoli remoti di quello splendido, millenario Paese. Gioffrè ce ne parla con sapienza letteraria ormai matura, anche se non è una sorpresa se pensiamo al suo Artemisia Sanchez, edito da Mondadori, raffinato racconto storico, e alla sua trasposizione per Rai Uno, con la colonna sonora scritta da Lucio Dalla.

«La visita finì a malincuore, mentre il giorno andava calando dietro il versante libanese delle montagne – leggiamo, quando il suo alter ergo, Andrea Bisi, medico, ormai in punto di morte sul lettino di un reparto di emodinamica, fa un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, alla ricerca dell’amore perduto in quel pezzo distrutto di Medio Oriente, la bellissima Fadia, e di se stesso -. Palmyra, la dolce città di Zenobia, li attendeva… le rare macchine che incrociavano erano piene di gente che appariva rassegnata al proprio destino».

È il destino di una Siria martoriata dalla guerra e, forse ancor peggio, dimenticata da un Occidente affaccendato tra follie e indifferenze capitaliste. Aleppo, Damasco, il deserto, Bisi alias Gioffrè ha davvero conosciuto la grande bellezza, e poi le sue macerie umane e storiche. Da ateo e comunista, si confronta con l’arcivescovo ortodosso della stessa prodigiosa Aleppo, Boulos Yazigi, del quale diventerà amico, anche lui successivamente rapito e ucciso dai terroristi di Al-Nusra.

«Mi piaceva – ci dice – la sua semplicità giornaliera del vivere, e io da ateo osservavo e veramente ero convinto di essere in un altro mondo. Capivo la loro difficoltà a farsi accettare da un Occidente schiavo del consumismo e dal falso benessere. Gli avevo raccontato della mia militanza, non si era affatto scomposto». A Palmyra, “sposa del deserto”, aveva incontrato prima della Rivoluzione e dello scoppio del conflitto anche gente del calibro di Kaled-al-Asaad, l’archeologo che «da quarant’anni studiava e proteggeva uno dei siti più importanti e meglio mantenuti al mondo, dimostrando un amore smisurato per quella antichissima città della quale conosceva la storia di ogni pietra». Quell’Asaad che nel maggio del 2015, quando la città passò in mano allo Stato Islamico, fu catturato da un gruppo di jihadisti e decapitato due mesi più tardi. Il simbolo della decapitazione di un popolo. Un Olocausto, e vite spezzate, e sogni spezzati dei “fantasmi” dei sopravvissuti a una guerra che sembra non avere fine. Sotto agli occhi “ciechi” di tutti, o quasi.

L’immagine e le parole di Youssuf, il migrante siriano “marchiato” come non fragile che insieme ad altri due naufraghi si è tuffato dalla Geo barents e quindi portato in salvo sul molo del porto di Catania, sono emblematiche: «Dopo giorni e giorni su quella nave stavo impazzendo. Avevo la sensazione che il mio corpo e i miei sogni si stessero sgretolando». La Siria e le sorti di quel popolo hanno cambiato per sempre la vita di Gioffrè, insofferente per statuto interiore ai grandi torti. «Da quando era tornato dal viaggio, era cambiata la sua percezione del mondo – si legge in Fadia -. I contrasti del mondo occidentale balzavano ai suoi occhi in maniera vivida e lampante», con «le contraddizioni tra un mondo destinato a finire nell’oblio dell’autodistruzione…» ma, nonostante tutto, «ancora umano, dove uno sguardo poteva essere una promessa eterna». C’era, c’è ancora tanta bellezza in Siria, «c’era tanta bassezza nel suo Paese natio».

Andrea Bisi-Gioffrè avrà a che fare, ora, con la grande guerra italiana. E del suo amato e abbandonato, come la Siria, Mezzogiorno: da una parte mafie, corruzione politica, massonerie deviate, dall’altra un commissario comunista eletto nella Asp più inquinata d’Europa. Una lotta impari, comunque intrapresa a viso aperto. Come quando affrontava i fascisti tra Reggio Calabria e Messina, a giorni alterni guadagnandosi una convocazione dalla Digos. «Avevo soltanto 16 anni, e già mi sentivo un soldato, anzi, ancor più di un soldato”, ci racconta Gioffrè, che a breve vedremo – se saremo fortunati, perché con l’aria che tira sarà difficile nei festival italiani – in un docufilm dal titolo C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, di Federico Greco e Mirko Melchiorre, dove il ginecologo di Seminara è nientemeno in compagnia di Roger Waters, Ken Loach, Gino Strada o lo stesso Gavino Maciocco, il medico che da anni lotta, come Santo Gioffrè, per la sanità pubblica, ad esaminarne lo sfacelo degli ultimi anni. «Una distruzione – sostiene – responsabile di milioni di morti da decenni». E «non una parola da nessuno sulle responsabilità di tale distruzione, non una parola che indichi una visione complessiva e macroeconomica del problema, non una parola su chi ha iniziato a far rotolare la valanga. Forse perché dovrebbe fare i nomi dell’intera classe politica italiana, compreso Draghi?», denuncia l’autore di Fadia, non retrocedendo mai di un millimetro. Come ha sempre fatto.

«Guarda me, se c’è pericolo tu corri da me» disse a Pietro Ingrao quando, da giovanissimo studente di Medicina e già a capo del servizio d’ordine, era il 9 agosto del 1970, in un clima infuocato a Reggio Calabria, come nel resto del Paese, il leader del Partito comunista tenne un discorso davanti a una folla immensa. «Molti anni più tardi lo rividi a Roma, a una manifestazione della Cgil – ricorda -, lui mi guardò con quella stessa espressione che ebbe durante tutto il comizio a Reggio, mi salutò e insieme rammentammo di tutta quella tensione quella mattina in piazza. Ai margini della manifestazione qualche fascista tentò di attaccare, ma nessuno osò farlo dove stavamo io e i miei compagni. Se a qualcuno lo ricordi, ancora scappa». Un’immagine che la dice lunga sulla tenacia e la forza, sin da giovane con gli occhi neri e il cuore in rivolta, di questo medico e romanziere combattente.

«Non ho mai avuto paura, all’epoca, e nemmeno oggi. Ero studente al classico di Palmi, ricordo dei giorni in cui, improvvisamente, chiudevano le strade perché il generale Dalla Chiesa, scortato da lunga colonna di blindati, doveva visionare lo stato dei lavori per la costruzione del super carcere di Palmi, un lager dove furono poi rinchiusi i brigatisti delle Br che garantiva più dell’Asinara o di Badu ‘e Carros perché era, ed è, terra di ‘ndrangheta. Erano quegli anni lì, quando io spesso andavo in “missione” fuori. Nella mia vita, soltanto mio padre fu capace di spaventarmi: tornai una sera da Roma, a settembre, e lui mi incrociò sotto casa fissandomi negli occhi e osservando i miei capelli lunghi fino alle spalle. Ero sparito da almeno due mesi. Aspettò che mi andassi a coricare. Io vigilavo, e feci bene perché improvvisamente corse in camera mia per darmene di santa ragione, con mai madre dietro nel tentativo di fermarlo. Ma io fui più svelto, saltai dalla finestra».

 

* In alto, la copertina del romanzo “Fadia”, edito da Castelvecchi e un ritratto dell’autore Santo Gioffré in un frame di un’intervista per LaC