Il ricordo dei bombardamenti nel 1999. Le attuali tensioni col Kosovo. Le affinità politiche con la Russia di Putin. Tutto si lega. Per comprendere che aria tira oggi in Serbia occorre dissodare il suo passato, come spiega lo scrittore Giovanni Dozzini in questo reportage

Il palazzo è buio, non del tutto buio ma illuminato solo in certi punti, come tutti i grandi edifici pubblici che quando scende la notte restano a rimuginare sullo scorrere inesorabile dei giorni e del tempo. Sembra un’università, o un ministero, è la sede della televisione pubblica serba. Nella guardiola all’ingresso tre custodi guardano la tv, uno si alza e ci viene incontro sorridendo. Sessant’anni, pochi capelli, si presenta ma non memorizzo il nome. Dice qualcosa a Katarina, non parla inglese, è intuitivo che si tratta di seguirlo oltre i tornelli e nel reticolato di corridoi punteggiati di porte chiuse. L’uomo è allegro, anche se ormai quasi tutti quelli che lavorano in questo posto devono essere tornati a casa e a lui toccherà rimanere per chissà quanto ancora.

Saliamo al piano di sopra, spuntiamo in un altro corridoio, entriamo in una stanza occupata da un trentacinquenne al computer che si alza per accoglierci prima di tornare subito al lavoro. Il portiere ci chiede se beviamo qualcosa, io ci penso su ma rispondo di no. Intendeva acqua? Non ho sete. Intendeva caffè? Oggi ne ho presi già troppi. Intendeva rakija? Non potrei escluderlo, ma comunque non mi pare il caso di buttar giù un bicchierino prima di un’intervista alla televisione. Katarina chiede un tè, perché l’uomo insiste, poi quello che lavorava al pc si scusa e si congeda. Tempo un paio di minuti e arriva Andjela, la mia interprete. Ci presentiamo, il portiere porta il tè, comincia un balletto che continuerà per tutta la serata. Io e lei che parliamo in italiano, lei e Katarina in serbo, il più delle volte tutti e tre in inglese.

Quindi il portiere ci guida nel ventre sempre più buio dell’edificio. A un certo punto ci ritroviamo in una zona di passaggio in cui mi sembra di sentire odore di bruciato, la superiamo in fretta, poco più in là una donna di mezza età piuttosto in tiro, che finge una gentilezza di circostanza, ci dà il benvenuto in un inglese curato e, pure lei, ci chiede di seguirla. Finalmente irrompiamo in un grande studio di registrazione, con pareti luminose che ruotano intorno a una bassa pedana dove è piazzata la scrivania a cui io e il mio intervistatore ci accomoderemo tra poco.

Dura tutto una ventina di minuti, prima dell’intervista il portiere entra un paio di volte urlando nomi che urlerebbe anche se si trovasse nella redazione di una televisione locale umbra. Marco! Franco! Sorride sempre, non smette fino a che non ci lascia davanti alla guardiola dentro alla quale i suoi colleghi più giovani stanno guardando Barcellona-Bayern Monaco, che deve essere appena cominciata. L’Inter ha già giocato, e a mezz’ora dalla fine, l’ho controllato prima di scendere dal taxi che ci ha portato qui, vinceva due a zero. Quindi, come da pronostico, noi siamo di sicuro già qualificati agli ottavi di Champions, così come il Bayern, mentre il Barcellona è fuori. La partita che sta trasmettendo adesso la televisione serba è una partita del tutto inutile. Ma cosa possono fare in fondo di meglio, questi tre uomini, che passare il loro tempo così?

Non so se l’odore di bruciato che ho sentito nei corridoi fosse reale o meno. Probabilmente non lo era nemmeno quello di due giorni prima, all’imbrunire della mia prima giornata a Belgrado, quando avevo camminato fino a una delle due più grandi tracce rimaste dei bombardamenti del 1999. In quel momento, davanti alla carcassa del palazzo della televisione, non sapevo ancora che quarantotto ore più tardi sarei entrato in quello stesso complesso da un ingresso laterale rispetto alla prospettiva macabra e impressionante su cui mi stavo affacciando.

Il palazzo era stato tagliato di netto, come da una gigantesca lama che calando dall’alto aveva cauterizzato la ferita. Sembrava una casa delle bambole: si vedeva in sezione la normalità interrotta di allora, si vedevano le stanze, i cubicoli, le piastrelle alle pareti e i pannelli sul soffitto, si vedevano i muri divisori anneriti e la soffitta sotto il tetto a spioventi da cui spuntavano delle assi sfilacciate e, verso l’alto, un comignolo intatto. Si vedevano, in ogni piano, le finestre spalancate verso l’interno, senza vetri. Al primo piano la fila era interminabile, e ricordava una sfilza di espositori di cd nei vecchi negozi di dischi. Alcuni piccioni entravano e uscivano, totalmente indifferenti a ciò che significava il luogo che avevano scelto per casa. Un’indifferenza oltraggiosa e sana, quasi un incoraggiamento, la natura che sa prescindere dalla guerra e dalla storia degli uomini, che le appartengono non più di qualsiasi altro essere vivo o inanimato. Alla destra dell’edificio martoriato si innalzava, dietro o sopra un piccolo grattacielo ricoperto di vetri specchiati, un’alta torre di tralicci: l’antenna della radio. Sempre a destra, ma in primo piano, una palazzina più bassa, nuova ma molto classica, come quella che si trovava dall’altra parte, e che in qualche modo doveva condurre allo studio di registrazione in cui io avrei fatto la mia intervista.

Il palazzo della televisione a Belgrado. Foto di Giovanni Dozzini

La sede della televisione serba è stata colpita dai missili della Nato la notte del 23 aprile 1999. Io non avevo ancora compiuto ventuno anni. Di quella guerra ho alcuni ricordi nitidi e altri molto confusi. Di nitido ci sono in realtà dei frammenti di ricordo: io all’ospedale di Siena, dove stavano cercando di capire una volta per tutte che genere di malanno avessero i miei nervi, perforando, asportando, analizzando varie minuscole parti del mio corpo, e le notizie dell’attacco a Belgrado sui giornali o nelle telefonate con i miei. E poi D’Alema, che allora era primo ministro, le polemiche a sinistra per la partecipazione italiana alla missione. Un vecchio comunista italiano che bombarda Belgrado.

Ricordo poi le immagini in tv per tutta la primavera, ricordo uno stato di angoscia in fondo sottile, perché a vent’anni l’angoscia finisce sempre per essere schiacciata dal peso del futuro. Non ricordavo, per esempio, che nel bombardamento della televisione fossero morte sedici persone. Me lo hanno detto Katarina e Andjela, a cena subito dopo l’intervista in un vecchio ristorante qualche isolato più in là. Sul web, una volta tornato a casa, ho trovato un articolo di Repubblica uscito il giorno dopo la strage. Non vedo la firma, ma il titolo è molto diretto, nonché in difetto dell’informazione più importante:«La Nato distrugge la televisione serba». Solo nell’occhiello si fa riferimento alle vittime: «Attacco missilistico nel cuore della notte: almeno nove i morti, molti i feriti». Non bombe, quindi, ma un missile. Sparato da chi, da dove? Non lo so. «Un missile ha semidistrutto la palazzina che ospitava gli uffici della tv ed ha abbattuto la grande antenna trasmittente, riducendola al silenzio». La contabilità dei civili colpiti è provvisoria, di sicuro c’è l’ora dell’attacco, le due del mattino.

Altrove, sempre in rete, trovo la conferma di quanto mi hanno detto Katarina e Andjela. I morti, alla fine, furono sedici. Sedici persone che, di notte, lavoravano nella sede della televisione pubblica serba, come i portieri che poco fa guardavano Barcellona-Bayern, come forse Marco o Franco o qualche altro tecnico. Il pezzo di Repubblica si chiude con una dichiarazione dell’allora ministro dell’Informazione, intervenuto sul posto. «Criminali come Clinton e Blair non possono essere stati partoriti da una madre. Sono i più grandi criminali, bestie. in confronto a loro anche Hitler era solo un bimbetto». Il ministro si chiamava Aleksandar Vučić.

Quell’Aleksandar Vučić? Sì. Di Vučić in questi giorni a Belgrado ho parlato a lungo. Il presidente della Repubblica di Serbia è un uomo ingombrante, la cui ombra si proietta su molte delle cose che accadono più o meno dappertutto. Nazionalista, populista, di tendenze illiberali, Vucic è l’anello di congiunzione tra la Serbia di Milošević e quella di oggi, tra il Novecento e il cuore del ventunesimo secolo. Nel 1999 era un enfant prodige, adesso, a cinquantadue anni, è un equilibrista che in casa propria alimenta un revanscismo che trasuda da ogni angolo della capitale e in Europa cerca, come mi ha detto qualcuno, di far sedere il suo Paese “su due sedie”. Né con la Nato, né con la Russia. Eppure l’impressione è che il popolo serbo, di cui Vučić è insieme espressione e guida, la veda diversamente. Mai con la Nato, mai contro la Russia.

«La Russia è per noi una specie di sorella maggiore», mi ha spiegato una delle organizzatrici della Fiera del Libro di Belgrado il giorno del mio arrivo. «La Russia è entrata nella Prima guerra mondiale per prendere le difese della Serbia. Questo non lo possiamo dimenticare». I legami tra queste due nazioni sorelle in effetti sono numerosi e solidi. La storia, la lingua, la religione. Proprio vicino alla sede della televisione, ai piedi della grande chiesa ortodossa di San Marco, c’è la piccola chiesa russa, costruita nel 1924 con l’intenzione di dare sfogo e conforto ai tanti russi bianchi in fuga dopo la Rivoluzione bolscevica. Sono passato anche da lì. Mi sono spinto dentro, trovandomi di fronte a una parete completamente ricoperta di icone mariane dorate. C’erano alcune donne che pregavano, di età diverse, una molto giovane. Donne russe che pregavano per cosa? Per chiedere al Padreterno l’inconfessabile: salvare i colpevoli e fare ciò che crede delle vittime.

La Serbia non ha aderito alle sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio scorso. «Io penso che fino all’invasione Putin per i russi sia stato un bene. Dopo, no. La Russia si era pian piano aperta al mondo, ora rischia di tornare indietro di trent’anni, a una chiusura simile a quella dei tempi dell’Unione Sovietica», mi ha detto la donna della Fiera. Una donna in gamba, simpatica, colta, moderatamente di destra, nipote di un cetnico internato per un certo periodo in un campo di concentramento del Centro Italia durante la Seconda guerra mondiale. Ma se questa guerra non le piace, ancor meno le piace l’idea che si pensi di risolverla con l’annientamento della Russia. «La nostra sorella maggiore», dice. Il novanta per cento dei serbi, secondo me, sta con la Russia».

Quella di Katarina è tutta un’altra storia. Una domanda che mi faccio sempre, da sempre, è come si possa essere di sinistra in un Paese in cui l’idea stessa di sinistra è stata ferocemente sconfitta dalla storia. Un qualsiasi Paese dell’Est Europa, con tutte le debite differenze, e anche la Serbia. Ecco: si può fare come Katarina. Aprire una casa editrice, pubblicare libri importanti di divulgazione scientifica, e poi scommettere su una collana di narrativa straniera capace di raccogliere voci disparate, storie che vorrebbero contribuire a comporre una rappresentazione dell’Europa e della società europea diversa da quella dominante. «Dieci anni fa era il momento giusto per entrare nell’Unione Europea. Allora avrebbero dovuto accettarci, o dimostrare di volerlo fare seriamente. Ormai, secondo me, è tardi. Temo che non succederà più». Non succederà perché la Serbia sta diventando un candidato sempre meno presentabile per Bruxelles. «E perché il popolo serbo lo vuole ogni giorno di meno».

Eppure Katarina è cresciuta in un posto che sentiva fare parte a pieno titolo dell’Europa. «La Jugoslavia era Europå», dice. Non era la Bulgaria, non era la Polonia, naturalmente non era l’Unione Sovietica. «Avevamo più libertà. Potevamo viaggiare, potevamo andare dove volevamo». Per questo, quando la Nato ha cominciato a bombardare nel marzo del 1999, non riusciva a credere ai suoi occhi. «Era come se un amico che vedevamo tutti i giorni ci entrasse in casa e cominciasse a spararci». Lei, contro Milošević, era scesa in piazza a lungo ai tempi dell’università. «Prendendo anche qualche botta». Ma poi la Nato, per fermare le porcherie di Milošević in Kosovo, ha preso a cannonate la gente comune. «Ma come? Noi protestiamo contro di lui per anni, ci facciamo picchiare dalla polizia, poi arrivate voi e per punire lui bombardate noi?». Putin per lei è indifendibile, ma le armi a Kiev non possono essere la soluzione. «Le guerre non vanno alimentate. Le armi portano solo altra guerra. Serve un negoziato, serve un compromesso».

L’argomento guerra, qui, è scivoloso per molti motivi. Primo fra tutti, il Kosovo. Pur non aderendo alle sanzioni dell’Occidente contro la Russia, per esempio, Vučić non ha riconosciuto i referendum nel Donbass. Chiaramente avrebbe rappresentato un precedente sconveniente considerando l’annosa questione del Kosovo, dove nel 1389 fu combattuta la Battaglia della Piana dei Merli, che per i serbi è uno degli snodi cruciali della loro storia, e fa del Kosovo un luogo fondante della loro identità. Una questione su cui il tenore del clima è evidente fin dall’arrivo a Belgrado: sul primo cavalcavia della strada che porta dall’aeroporto alla città campeggia, a caratteri cubitali, la scritta “Kosovo is Serbia”. E poi, davanti ai ruderi del ministero della Difesa, l’altra grande cicatrice del 1999 appena a valle del centro di Belgrado, è affisso un grande striscione che, oltre a inveire contro la Nato, recita così: “Serbia without Kosovo would be like a human without heart” (“La Serbia senza il Kosovo sarebbe come un uomo senza il proprio cuore”).

«Mio padre è nato in Kosovo», dice Andjela a cena. «E anche se razionalmente so che ormai il Kosovo non potrà più far parte della Serbia, emotivamente per me accettarlo è difficilissimo». Prendo coraggio, perché è necessario. In quei giorni, in quell’ultima primavera del vecchio secolo, chiedo a un tratto a entrambe, voi eravate a Belgrado? Katarina e Andjela dicono di sì. I racconti di mio padre bambino sotto le bombe alleate, in un Paese appena fuori Perugia, erano confusi, quelli di mia madre, che nel 1944 aveva due anni, impossibili. Questi, invece, sono i racconti di due donne che a quel tempo andavano all’università. Mie coetanee, più o meno: io a farmi vivisezionare in ospedale, loro a nascondersi dalla guerra.

Katarina spiega bene la sensazione di essere attraversata, in tutto il corpo, dall’aria arroventata da una bomba caduta, di notte, poche centinaia di metri più in là. «Camminavo per strada, si è fatto improvvisamente giorno, il botto è stato enorme». Gli occhi di Andjela si riempiono di lacrime. Rimarranno lì per tutta la sera, senza mai venire giù. «Io non ci credevo. Quegli ultimatum della Nato a Milošević mi sembravano solo un modo per metterlo alle strette. Non lo faranno mai, pensavo». Poi, la sera del 24 marzo 1999, il telegiornale chiarisce che la situazione è precipitata. «Dissero che se avessimo sentito le sirene antiaerei non sarebbe stata un’esercitazione. Cinque minuti dopo mi chiama una mia amica dall’Italia, dove era scappata proprio per paura delle bombe. Guarda che gli aerei sono appena decollati dalla base di Aviano, mi dice. Stanno arrivando. A quel punto è cominciato l’incubo». Un incubo destinato a durare a lungo. «Ma dopo quattro o cinque giorni smettemmo di tormentarci. Se sentivamo le sirene, continuavamo a fare quello che stavamo facendo», mi dice Katarina. Andjela annuisce. «Gli uomini finiscono per adattarsi a tutto».

L’operazione Allied Force durò settantotto giorni, dal 24 marzo al 10 giugno 1999. L’associazione non governativa Human rights watch ha stimato un numero di vittime civili serbe tra le 489 e le 528. Secondo Belgrado furono cinque volte di più, senza contare gli effetti a lungo termine, tra tumori e leucemie, dell’utilizzo di munizioni con uranio impoverito.

Belgrado, in questi giorni, è stata molto calda. Come l’Italia, come una parte di mondo troppo grande, per essere nel pieno dell’autunno. La natura non ce la fa più, e le guerre in cui si impelagano gli uomini, in questa faccenda, paradossalmente sono solo un dettaglio. Ma un dettaglio enorme. Prendi questo palazzo martoriato, prendi la sede della televisione e prendi anche il ministero della Difesa. Prendi le sedici persone morte mentre lavoravano al turno di notte. Moltiplica tutto per dieci, per cento, per mille. Prendi quelle donne russe che stavano pregando davanti alle loro madonne color dell’oro. Fanne un seme da cui germoglieranno milioni di preghiere. A che scopo?

Allontanarsi dall’Occidente, ogni tanto, ha un effetto quasi lisergico. Si vede tutto più chiaramente, senza nemmeno il bisogno di capire, di preciso, come funzionano le cose, o come possono funzionare. Parla con una donna serba, con una bulgara, parla con un messicano di settant’anni o con un maliano di trenta. Chiedigli di raccontarti la guerra tra Russia e Ucraina, guarda il distacco o l’abisso nei loro occhi. Sono molti i torti, sono molte le ragioni. Ma non c’è nulla di romantico: la guerra è volontà di potenza, i nazionalismi sono il veleno della storia, gli imperialismi il fuoco più feroce. L’immancabile rakija alla prugna con cui ho inaugurato la mia ultima a cena a Belgrado prima di tornare a casa, invece, mi ha incendiato lo stomaco, e mi ha dato il coraggio di fare quella domanda oscena: com’era, per voi, vivere sotto le bombe che noi vi sganciavamo in testa? Ed è in questa domanda, più che nelle risposte, che si trova la lente con cui dovremmo guardare il presente.


* L’autore: Giovanni Dozzini nel 2019 ha vinto il Premio Letterario dell’Unione Europea con E Baboucar guidava la fila (Minimum Fax). Negli ultimi due anni il romanzo è stato tradotto in nove lingue, a cui se ne aggiungeranno a breve altre tre. L’edizione serba è appena uscita con il titolo A Babukar je Išao prvi (traduzione di Snežana Milinković), per l’editore Heliks. Tra il 24 e il 27 ottobre scorsi Dozzini è stato a Belgrado per promuoverlo e partecipare alla Fiera del Libro.

In foto: una donna passa davanti ad un murales vandalizzato che raffigura il ​​presidente russo Vladimir Putin e l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in un sobborgo di Belgrado. Le lettere cirilliche sul murales recitano “Il Kosovo è Serbia”. Serbia, 3 novembre 2020