I mondiali del Qatar passeranno alla storia come il dark side del calcio contemporaneo. Con le sue innumerevoli violazioni dei diritti umani e con le morti di migliaia lavoratori immigrati nei cantieri di Doha il calcio è già diventato puro elemento scenico. Di tutto questo ne tratta ampiamente Valerio Moggia nel suo La Coppa del morto, un libro che, data l’assegnazione del mondiale al Qatar avvenuta ormai più di dieci anni fa, raccoglie le non poche controversie per quella che potrebbe essere definita la più grande operazione di “sport washing” di sempre.
Con queste premesse è chiaro come il calcio – anche se questo avviene quasi ad ogni Mondiale – passi in secondo piano facendo di ogni partita uno scontro geopolitica da 90 e oltre minuti.
Uno degli esempi più recenti è quello offerto dalla partita Marocco-Belgio che ha visto trionfare la squadra di Hoalid Regragui per due a zero dando così avvio a Bruxelles ad un’intesa giornata di proteste e rivendicazioni spaziali – usare il termine sommossa sarebbe davvero riduttivo e pregiudiziale – che hanno mobilitato l’opinione pubblica internazionale. Anche Matteo Salvini ha voluto dire la sua con un tweet nel quale ha paragonato l’atto del protestare a quello del violentare.
Detto questo c’è una partita che nasconde un’altra probabile polveriera. Si tratta di Svizzera-Serbia – in programma per il prossimo 2 dicembre alle ore 20 – e di quello stretto legame con il Kosovo nato come conseguenza delle guerre balcaniche degli anni 90. La Serbia, come ormai è ben noto, non riconosce il Kosovo al pari di Russia, Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania, e la Repubblica Popolare Cinese. Nel Kosovo l’Unione europea dirige una missione civile per l’ordine pubblico e lo Stato di diritto chiamata Eulex, in affiancamento alla missione Kfor (Kosovo force) guidata dalla Nato. Il governo italiano, tra l’altro, ha deciso ad inizio a novembre di rinforzare la presenza con l’invio sul territorio di 23 carabinieri.
Non solo la Serbia non ne riconosce l’indipendenza del 2008, ma continua ad avere mire sulle miniere di Trepča, espropriate da Pristina al governo serbo e che prima delle guerre balcaniche degli anni 90 costituivano il 70% dell’intera attività minerario estrattiva della Jugoslavia. Piccolo inciso, Trepča è situata nei pressi della città di Mitrovica dove, divise dal fiume Ibar, convivono la comunità serba e quella kosovora di etnia albanese. Secondo le stime di Kosovo diaspora, un terzo della popolazione kosovara vive all’estero in particolare tra Germania e Svizzera e questo lo si può capire dal fatto che il tedesco a Pristina sia parlato da molti giovani nonché dalla presenza di diversi negozi di Swiss delicatessen.
Svizzera e Serbia sono nello stesso girone del Mondiale (Gruppo G) insieme a Brasile e Camerun. Così vedere nello spogliatoio serbo, dopo la sconfitta con il Brasile, campeggiare una bandiera del Kosovo ritoccata con i colori serbi e con la scritta in cirillico “nessuna resa” – come dimostrano foto circolate dopo il match – non può essere una questione riconducibile al solo calcio.
Nella Svizzera giocano infatti diversi giocatori albanesi-kosovari, in particolare le due stelle dalla nazionale Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri che già nelle qualificazioni ai mondiali del 2018, proprio contro la Serbia, avevano esultato mostrando con le mani il simbolo dell’aquila albanese. Quel gesto a sua volta era figlio di una lunga schermaglia che il calcio ritraeva nella sua versione forse più simbolica e pittoresca.
Nell’ottobre 2014, infatti, per un match valevole alle qualificazioni degli Europei 2016 l’aquila era volata portando “qualche” scompiglio. Era il 14 ottobre e allo stadio Partizan di Belgrado si affrontavano Serbia e Albania. Dopo diversi scontri fuori e dentro al campo la partita venne interrotta. I tifosi serbi cantavano “Ubij, ubij, Šiptara” (Uccidi gli albanesi) lanciando razzi e altri oggetti in campo. A quel punto, sul finire del primo tempo, è apparso in campo un drone con una bandiera, quella della Grande Albania, con la scritta “Kosovo autoctono” e la data del 1912 (la rivolta albanese). Il difensore serbo, Stefan Mitrović, si è precipitato a rimuovere il vessillo facendo cadere il drone e innescando una rissa domino che ha visto i giocatori albanesi rientrare negli spogliatoi e non fare più rientro in campo.
Ma cosa vuole dire esattamente non essere riconosciuti? E cosa rende così speciale il legame tra due nazioni così diverse come Kosovo e Svizzera da generare una sorta di odio “secondario” nei giocatori serbi?
Recentemente, grazie ad un altro evento di culture entertainment, come quello della biennale d’arte Manifesta 14 ospitata quest’anno proprio a Pristina, ho potuto toccare con mano cosa significa il viaggio Svizzera-Kosovo.
Sono partito da Bologna, direzione Malpensa il 20 luglio mattina. Una volta sull’aereo, dopo essere rimasti fermi in pista per due ore, il volo è stato cancellato. Tra la rabbia dei vari passeggeri e la voglia comunque di non perdere l’inaugurazione, sono rimasto fuori dall’ingresso partenze a fumare per diversi minuti. In quegli attimi di indecisione ho incontrato una famiglia italo kosovara che, come me, era rimasta a terra. Per loro, però, non sembrava un problema. Mi hanno chiesto, dopo i normali convenevoli di presentazione, se fossi ancora intenzionato ad andare. Ho fatto sì con la testa e in un’ora eravamo tutti e cinque a Como ad aspettare un pullman che faceva Zurigo-Pristina no stop.
Il mio viaggio da art-hopper che gira e salta per deformazione professionale tra i vari eventi artistici, è diventato il più normale dei viaggi di quella diaspora kosovora che d’estate rientra in patria. Nell’arco di 23 ore ho potuto conoscere e capire da vicino cosa significhi vivere in un Paese non ancora formalmente riconosciuto. L’ho capito al confine con la Serbia. All’improvviso, un viaggio che i miei occhi leggevano nella più tipica stereotipizzazione da Emir Kusturica, si è trasformato nella corsa ai documenti da preparare, dal passaporto alla visa alla documentazione Covid. Io avevo un normalissimo passaporto bordeaux, i miei compagni di viaggio invece avevano fogli stampati, foto, documenti, allegati e addirittura cartelline piene di permessi controfirmati.
Al confine con la Serbia molti dei loro bagagli sono stati aperti in modo tutt’altro che cortese e quella sicurezza, che prima vedevo in quei grandi volti scavati, si era trasformata in attesa nervosa. Io mi sentivo inutile come la missione italiana Arcobaleno, quella voluta dal governo D’Alema che prima ha aperto le basi di Aviano per il bombardamento di Belgrado e poi si è apprestata ad accogliere i profughi in ex basi militari in Sicilia. Tutto questo sovrastimando la proporzione degli arrivi lasciando così marcire nei container del porto di Bari diverse tonnellate di cibo. Arrivato al confine con il Kosovo ho poi assistito al piccolo atto di rappresaglia, di guerriglia extra urbana kosovara. A tutte le macchine con targa serba in entrata veniva apposto un adesivo bianco sulla sigla internazionale SRB. Questo non solo per restituire il “favore” del non riconoscimento, ma anche per rendere ancor più visibile l’ospite privato della sua identità nazionale. Su quel pullman storie e identità non avevano né confini né luoghi specifici. Tutto era in ognuno di loro.
In un Mondiale in cui sembrano esistere ancora gli Stati nazione, Svizzera-Serbia al di là del risultato ci racconta che per l’odio non ci sono confini.
* L’autore: Emanuele Rinaldo Meschini è critico e storico dell’arte
In foto: da sinistra, il centrocampista Xherdan Shaqiri, il centrocampista Djibril Sow e l’attaccante Noah Okafor partecipano a una sessione di allenamento a porte chiuse della nazionale svizzera di calcio alla vigilia della partita dei Mondiali del Qatar contro la Serbia. Doha, Qatar, giovedì 1° dicembre 2022.