L’attacco terroristico alle istituzioni brasiliane avvenuto in queste ore, con l’invasione, distruzione e sottrazione del patrimonio pubblico del Senato, della Camera dei deputati, della Corte suprema e del Palácio do Planalto, la sede ufficiale della Presidenza della Repubblica del Brasile, poteva avvenire soltanto con il consenso – e persino con l’effettiva partecipazione – delle autorità competenti per la pubblica sicurezza e l’intelligence, dal momento che l’organizzazione delle presunte “manifestazioni pacifiche” era un fatto noto, pubblicizzato dai media brasiliani, che ne denunciavano il nome in codice utilizzato dai più fanatici bolsonaristi per darsi appuntamento a Brasilia: “Festa da Selma”.
Messaggi con linee guida e inviti a occupare edifici pubblici e strade circolavano su Whatsapp almeno dal 5 gennaio. Secondo un monitoraggio eseguito dalla società di analisi dei dati Palver, che tiene traccia di oltre diciassettemila gruppi pubblici su questa app di messaggistica, uno dei messaggi più diffusi era una sorta di manuale su come agire durante gli attacchi agli edifici pubblici. «Non iniziate mai l’invasione senza avere a disposizione una folla che si impadronisca contemporaneamente delle sedi dei tre poteri della Repubblica, cioè, iniziate l’invasione solo quando ci sono abbastanza patrioti per invadere tutto!»
Nei gruppi monitorati erano incentivate anche le invasioni dei municipi, dei consigli comunali e degli uffici dei governatori di ogni Stato, sempre con le stesse modalità. Ai membri, gli amministratori delle chat consigliavano di arrivare nei pressi degli edifici interessati “tutti insieme, non in piccoli gruppi”, per invaderli, senza essere attaccati dalle guardie di sicurezza o dalla polizia.
Il giudice della Corte suprema Alexandre de Moraes, nel determinare la sospensione dai pubblici uffici del governatore del Distretto federale Ibaneis Rocha, per un periodo di tre mesi, elenca «omissioni e connivenze di varie autorità, dimostrati dall’assenza della necessaria attività di polizia» soprattutto da parte delle squadre anti sommossa del Distretto federale (Comando de choque da polícia militar).
Tali “omissioni e connivenze” da parte delle autorità competenti hanno permesso che, in sole tre ore, le sedi dei poteri esecutivo, giudiziario e legislativo fossero distrutte. Oltre all’assenza della necessaria vigilanza da parte della Polizia militare del Distretto federale e all’autorizzazione all’ingresso di autobus di manifestanti a Brasilia, senza alcun controllo e con il beneplacito dell’ex capo della Pubblica sicurezza del Distretto federale, Anderson Torres – già ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza di Bolsonaro – il giudice Alexandre de Moraes, ha sottolineato la «totale inerzia nel chiudere l’accampamento criminale di fronte al quartier generale dell’esercito», messo in piedi sin dai primi di novembre ed immediatamente dopo la vittoria di Lula alle elezioni presidenziali.
Fondamentale è stato il sostegno dell’esercito brasiliano nella protezione dei vandali e dei terroristi della estrema destra bolsonarista. Oltre ad accoglierli, ai migliaia, all’interno di un’area militare di Brasilia, dopo aver distrutto il patrimonio pubblico, buona parte dei criminali è tornata a piedi dal luogo del delitto, la Praça dos três poderes (Piazza dei tre poteri), al loro quartiere generale militare, percorrendo indisturbata circa otto chilometri.
Nel pomeriggio di domenica, il ministro della Difesa José Múcio Monteiro ha incontrato il comandante dell’Esercito Júlio César de Arruda e altri generali per stabilire le modalità di sgombero della zona militare. Per chiudere l’accampamento i militari hanno convenuto con il neo ministro della Difesa di inasprire la strategia di strangolare la logistica degli estremisti che pernottano davanti alla loro sede, privando loro dell’acqua e del cibo fornito dagli imprenditori che finanziano tali atti antidemocratici.
Anderson Torres, oramai esautorato dall’incarico di segretario della Pubblica sicurezza del Distretto federale, grazie al commissariamento indetto da Lula (Intervenção federal), era stato nominato dal governatore Ibaneis Rocha il 2 gennaio scorso. La scelta di Torres aveva destato non poche perplessità ai giudici della Corte suprema e alla cupola del Partido dos trabalhadores. Da ministro della Giustizia di Bolsonaro, Torres aveva permesso che la Polizia stradale fermasse oltre 600 autobus che trasportavano elettori di sinistra, cercando di ritardare il loro arrivo alle urne al secondo turno delle elezioni presidenziali, dichiarato guerra agli istituti di sondaggi che divulgavano dati favorevoli a Lula e, infine, affermato di non avere a sua disposizione forze di polizia sufficienti per impedire gli svariati blocchi verificatesi nelle autostrade, subito dopo il risultato elettorale.
Nonostante fosse assurto agli onori della cronaca come “uomo forte” di Bolsonaro, il governatore del Distretto federale si era detto fiducioso nell’operato di Anderson Torres, procedendo alla contestata nomina. In vacanza in Florida, proprio come Bolsonaro, Torres nega di aver scelto come meta gli Stati Uniti per ricongiungersi all’ex Presidente, sostenendo di aver lasciato Brasilia dopo aver stabilito ogni misura atta a garantire la pubblica sicurezza del territorio.
Via Twitter, Bolsonaro si difende dall’accusa di essere il mentore degli atti terroristici di Brasilia, che paragona a manifestazioni avvenute nel 2013 e nel 2017. «Le manifestazioni pacifiche, sotto forma di legge, fanno parte della democrazia. Tuttavia, le depredazioni e le invasioni di edifici pubblici come quelle di oggi, così come quelle praticate dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, non sono ammesse».
– Manifestações pacíficas, na forma da lei, fazem parte da democracia. Contudo, depredações e invasões de prédios públicos como ocorridos no dia de hoje, assim como os praticados pela esquerda em 2013 e 2017, fogem à regra.
— Jair M. Bolsonaro 2️⃣2️⃣ (@jairbolsonaro) January 9, 2023
Le manifestazioni avvenute nel 2013, però, non possono essere riconducibili alla sinistra, essendo proteste contrarie al governo Dilma Rousseff, ai giochi olimpionici, ai mondiali di calcio e all’aumento del costo dei biglietti dell’autobus. Tali manifestazioni diedero visibilità ad esponenti e movimenti di destra trasformatisi poi in partiti. Senza la partecipazione dei sindacati, dei movimenti sociali o dei partiti di sinistra, quanto avvenuto nel giugno 2013, in diverse città brasiliane, con manifestazioni rimaste conosciute come “Primavera carioca”, si è presto trasformato in “proteste anti corruzione” contro il Partito dos trabalhadores, terminando con la distruzione del patrimonio pubblico, l’invasione della sede del governo di Rio de Janeiro, saccheggi, decine di feriti e il tentativo di dare fuoco all’Itamaraty, la sede del ministero degli Affari esteri, a Brasilia.
Il 28 aprile del 2017, sotto il governo dell’ex presidente Michel Temer, che assunse alla presidenza dopo il golpe bianco subito da Dilma Rousseff, si è verificato il più grande sciopero generale del Brasile, a cent’anni dal primo. Milioni di lavoratori hanno incrociato le braccia in ogni angolo del Paese, essendo duramente manganellati e repressi quando hanno deciso di guadagnare le strade delle capitali per protestare contro i tagli dei loro diritti.
Per comprendere la dinamica di quanto avvenuto a Brasilia è necessario risalire al mese di maggio 2020, e non all’attacco a Capitol Hill (gennaio 2021). Il 15 aprile del 2020, di fronte all’inerzia del governo Bolsonaro per contenere l’epidemia di Covid, la Suprema corte brasiliana dichiarò che sindaci e governatori potevano promulgare misure d’isolamento e di distanziamento sociale atte a fermare l’avanzare del coronavirus nel Paese. Per i giudici della Corte, l’allora presidente della Repubblica non poteva disporre dei propri poteri al fine di «mettere eventualmente in atto una politica pubblica di carattere genocida».
In una sequela di video e uscite sui social network, Bolsonaro aveva sfogato la propria ira contro la magistratura, sostenendo che uscire per le strade impugnando armi per difendere la propria libertà fosse lecito. Eletto mimando pistole e mitragliatrici con una mano, mentre con l’altra innalzava la Bibbia, Bolsonaro sapeva che qualcuno appartenente alle frange più estreme dei suoi sostenitori l’avrebbe potuto prendere in parola e agire di conseguenza.
Sara Fernanda Giromini, nota attivista dell’estrema destra brasiliana, più conosciuta come Sara Winter (pseudonimo scelto per omaggiare una famosa spia di Hitler), rispose subito alla chiamata di Bolsonaro, diffondendo sulle proprie pagine social diversi selfie e video impugnando pistole e la Bibbia. Bolsonaro le assegnò un ruolo come assistente della ministra per la Famiglia, la pastora evangelica Damares Alves.
A pochi mesi dalla nomina, però, Sara Winter divenne l’ideatrice di un movimento estremista intitolato i 300 do Brasil. Attorno al palazzo presidenziale fece disporre un numero imprecisato di tende. Il gruppo, autoproclamatosi “il più grande campeggio di azioni strategiche contro la corruzione della sinistra nel mondo”, non esitò a disobbedire alle misure di distanziamento e isolamento sociale emanate dal sindaco di Brasília. Si sentivano le “guardie pretoriane di Bolsonaro” e sfidavano le forze dell’ordine a sgomberarli. Imperterriti nella difesa di ogni parola e posizione di Bolsonaro, i 300 do Brasil passarono a minacciare fisicamente chiunque controbatteva alle dichiarazioni del loro leader, in particolare quando questi erano esponenti delle istituzioni democratiche, in special modo i giudici della Corte suprema.
Dopo aver affermato di offrire addestramento paramilitare e di essere in possesso di molte armi, Sara Winter, che mostrava con orgoglio la vistosa croce celtica tatuata sul seno, non poté che finire sotto l’occhio della magistratura. In risposta, dal quartier generale, l’improvvisato campeggio, partirono con inaudita violenza minacce e proteste antidemocratiche contro i giudici.
Per infoltire le file del movimento, e reclutare “soggetti patriottici, sovranisti e nazionalisti”, Sara Winter usava Whatsapp e le reti sociali online. Al fine di garantire la segretezza ed evitare infiltrati, i 300 do Brasil svilupparono una banca dati, attraverso la quale verificavano il passato di ogni aspirante “guardia pretoriana” che, dopo aver raggiunto Brasília, sarebbe stata sottoposta ad un addestramento paramilitare, che includeva lezioni di tiro, al fine di prepararsi alla difesa del presidente.
Le parole violente della donna contro le istituzioni democratiche portarono tuttavia al sequestro dei telefonini e dei computer del gruppo. A quel punto l’ex presidente Bolsonaro, intervenne in prima persona, dicendosi indignato per il sequestro dei pc e telefonini degli estremisti che minacciavano l’incolumità dei giudici della Corte suprema, con tanto di video pubblicati sui social. A presentare la difesa dei capi dei 300 do Brasil presso la Suprema corte, su espressa richiesta dell’ex presidente, fu il ministro della Giustizia di Bolsonaro, nonché pastore presbiteriano, André Mendonça. Per ricompensarlo della fedeltà, Mendonça fu nominato giudice della Corte suprema mesi dopo.
Sentendosi legittimati dalle parole di solidarietà del capo dello Stato, decine di fanatici si appostarono sotto la residenza del giudice Alexandre de Moraes e, con dei megafoni e slogan, lo accusarono di essere un “comunista”.
Lo storico Federico Finchelstein, esperto di estremismi e populismi, spiegava già nel 2020 perché il 300 do Brasil non potevano essere considerati semplicemente un raduno di innocui “compagni di merenda”. Finchelstein parlava di persone «disposte a morire per il loro leader», persone che possedevano «idee chiare sul sacrificio, come se la morte dei singoli appartenenti al movimento fosse irrilevante di fronte all’obiettivo principale costituito dalla diffusione delle idee propagandate dal gruppo».
Il fanatismo religioso dei 300 dos Brasil è lo stesso ostentato dai terroristi che hanno attentato contro la democrazia brasiliana nelle ore precedenti. Negli otto chilometri di marcia intrapresa per distruggere i palazzi istituzionali si udivano dalla folla le seguenti parole d’ordine: “Dio, patria, famiglia, libertà”. Nei video postati sui social, uomini e donne, giovani ed anziani, giustificano oramai il loro passaggio da semplici elettori ad attentatori. Si tratta di una lotta del “bene contro il male”, dicono, laddove il bene viene visto nei militari che prendono il potere con la forza, mentre il male sta nella “democrazia”, nel “comunismo” e nella “sinistra”.
Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto Quaest, durante lo svolgimento dell’assalto terroristico il 90% degli utenti di Internet disapprovava l’azione dei “patrioti bolsonaristi”. Secondo il direttore dell’Istituto, Felipe Nunes, l’indagine ha valutato 2,2 milioni di post pubblicati sui social network tra le ore 14 e le ore 18 di domenica 8 gennaio.
Simbolo di questo attacco senza precedenti al cuore amministrativo e alla democrazia del Brasile è il dipinto sei volte accoltellato di uno dei maggiori esponenti della pittura moderna brasiliana, Emiliano Di Cavalcanti (1897-1976). Non a caso raffigura quattro donne; una di loro suona una chitarra, mentre le altre vendono prodotti del campo. Intitolata “Mulatas” dall’artista, si tratta di un omaggio al Brasile delle donne lavoratrici, dei meticci e della povera gente che ha portato sulle spalle una delle maggiori democrazie del mondo.
Oltre agli incalcolabili danni materiali subiti, colpisce l’odio estremista, capace di martoriare il ventre di una delle donne dipinte nella tela di Di Cavalcanti. Oltre all’inquietudine per questo Brasile ricattato da una estrema destra fortemente armata, grazie ai decreti di Bolsonaro, revocati da Lula, urge la sfida di dover ricostruire un Paese che non si riconosce più nella mansuetudine della bossa nova o nell’allegria del samba, perché colpito al ventre e al cuore dall’inaudita ferocia dell’ignoranza diffusa.
* In foto: un frame da un video del Telegraph dedicato al tentato golpe in Brasile